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La difficoltà di essere se stessi

Immagine del redattore: antoninopuglisiantoninopuglisi

Aggiornamento: 29 nov 2019

A molti sarà capitato in particolari situazioni di sentirsi spronato da un genitore o un fidanzato con una frase del tipo “Sii te stesso” o “Sentiti libero di essere te stesso”. A rifletterci su si tratta però di un suggerimento un po’ paradossale. Dopo un simile suggerimento saremmo davvero noi stessi o saremmo una versione di noi autorizzata, sia pure bonariamente, da qualcuno per il tramite di quel consiglio? Vi siete mediamente sentiti più oppure meno spontanei dopo un’ingiunzione come “Sii spontaneo!”? Prima almeno eravate spontaneamente impacciati, ma essere spontanei su richiesta di qualcuno è una contraddizione in termini.

Anche quando non siamo di fronte a messaggi espliciti, seppur confusivi, come questi, tutto ciò che ci è permesso di essere sembrerebbe risentire dell’influenza degli altri. Dei genitori, del gruppo di amici, della società declinata nei suoi rappresentanti, nelle sue regole, nei costumi non scritti del “si fa così”. Non si parla solo di persone fisiche e di leggi vergate sui codici giuridici, ma anche e soprattutto dei loro fantasmi che si aggirano nel nostro mondo interno. In questo senso non siamo mai davvero soli anche nella solitudine della nostra camera. L’essere chi siamo in una simile prospettiva sembra qualcosa di residuale, finanche intimo e da proteggere. A volte le cose sono ancora più complicate e per taluni anche nei momenti più privati e nascosti lasciarsi andare ad essere chi sono risulta difficile, in taluni casi per queste persone è persino impossibile sentirsi certi di chi essi davvero siano.

Ci sono infatti dei casi in cui sin da piccoli è richiesto non solo di trascurare il proprio desiderio e le proprie inclinazioni. Ma di fingere con se stessi che quella che è la volontà di altri fondamentali sia in realtà la propria volontà, ciò che davvero si vuole e si è e non ciò che questi altri vogliono che noi siamo. E’ una sorta di trapianto di volontà. Non si tratta di ubbidire a ciò che i genitori chiedono, cosa che rimane nel normale recinto dell’essere educati ai limiti entro e grazie ai quali è però possibile sviluppare la propria specificità, per poi quei limiti trascenderli invece di pericolosamente ignorarli. Si tratta piuttosto di qualcosa che opera in modo più subdolo e nascosto, quindi pericoloso per la nascente psiche del bambino: dinamiche del genere infatti possono avere conseguenze importanti sulla mente in maturazione del bambino che ne ipotecheranno anche la vita adulta. In questi casi si tratta spesso di genitori incapaci di accettare un desiderio del figlio che diverge dal loro, un’idea nascente di sé che diverge da quello che i genitori vorrebbero che lui fosse, e che li induce a premere implicitamente o esplicitamente perché il bambino neghi parti di sé nascenti e originali piegandole alla loro volontà e ai loro desideri. Un risultato possibile è ciò che uno psicoanalista di nome Winnicott ha chiamato falso-Sé. La necessità di mantenere la protezione e l’amore dei genitori ha in questi casi come risultato la rinuncia alla propria nascente e originale personalità. Accedere alla parti più autentiche di sé in questo caso diventa assai difficile se non quasi impossibile poiché quelle parti sono rimaste embrionali, parti quasi abortite o sacrificate sull’altare di genitori piegati sulle esigenze proprie o della società piuttosto che su quelle del bambino. Quindi genitori che, ad esempio, cercano di realizzarsi nei figli e che quindi non possono tollerare che questi intraprendano scelte autonome; o che vivono come pericoloso per loro stessi ogni quota di originalità e diversità; o che vivono la nascente libertà del figlio come un’attentato al buon senso o al senso comune della società, di cui loro sono, troppo pedissequamente, i rappresentanti nei confronti dei propri bambini. Non si tratta solitamente di adulti mal intenzionati, né necessariamente malati o egoisti. Sono più facilmente genitori che credono di operare per il meglio dei propri figli e, per così dire, al servizio del giusto. Questi genitori inducono però nei figli la sensazione che essi esistono per gli altri, ponendo i loro bambini in una situazione di scacco nel tentativo di provare a salvaguardare al contempo la loro personalità nascente ma anche il legame vitale con i propri genitori. Bambini così possono persino arrivare ad imparare una fondamentale sfiducia nei propri sensi e di quanto percepito come reale perché perennemente disconfermato dai genitori o in contraddizione con il mandato genitoriale. In situazioni limite questo dilemma può finanche diventare patologia psichica. Gaburri e Ambrosiano sono due psicoanalisti che hanno posto in rilievo la delicata responsabilità dei genitori che sono, consapevoli o meno, presso i propri figli i rappresentati del senso comune della società. Il senso comune è quella base condivisa che accomuna la percezione degli individui di una certa cultura, cose date per certe e che consentono ad ogni individuo il legame con ogni altro, la possibilità d’intendersi e così via. Ma il confine tra senso comune e pressione conformistica può essere labile: lo sconfinamento su un versante più conformistico perverte infatti il senso comune in dogmatismo, automatismo cieco, la banalizzazione di ogni sopruso in nome del comune sentire. Il senso comune da base per la condivisione diventa un censore e un castigatore di quote di originalità, interne a noi o esterne, troppo divergenti con la mentalità comune. La diversità non è percepita come linfa vitale per il gruppo e la società, ma è vista come intollerabile, oggetto di pressioni al fine di essere riassorbita o, ove ciò non fosse possibile, in alternativa soppressa in svariati modi. Un grande psicoanalista di nome Bion ha affermato che alcuni disturbi mentali sono il tentativo disperato e narcisistico di resistere a questo assalto gruppale contro il proprio sé.

A proposito di narcisismo si potrebbe pensare che tra i difetti dei narcisisti non ci sia di certo il fatto che manchino di spontaneità nell’essere e mostrare chi sono. In realtà l’atteggiamento grandioso e autoreferenziale del narcisista serve a tamponare o mascherare una vuota ferita al proprio sé, un disperato tentativo di puntellare la propria autostima, di difendersi dal dipendere dagli altri nonché da un incombente senso di vuoto.

Le personalità “come-se” invece cercano di supplire con un eccesso di conformismo a un senso di mancanza di vitalità interiore, di percepita assenza di un sé definito, quasi come se potessero assumere vita e contorni più definiti per adesione fintamente emozionata a qualcosa o qualcuno. Agiscono come se sentissero determinate emozioni, come se credessero in qualcosa, come se fossero interessate a qualcosa o qualcuno. Il “come-se” è funzionale a nascondere un profondo vissuto di vuoto e indefinitezza.

L’instabilità della percezione di sé, il senso di vuoto, la polarizzazione dei vissuti nei confronti degli altri (che sono visti come del tutto buoni o del tutto cattivi, giudizi però estremamente suscettibili ad essere capovolti e contraddetti) sono tra le caratteristiche principali del disturbo borderline di personalità.

Nel disturbo dipendente di personalità il soggetto è dubbioso e non basta a se stesso, ha bisogno di essere costantemente ancorato a qualcuno, a volta fantasticando che diventando come l’oggetto della sua idealizzazione tutti i suoi problemi si risolveranno.

Il paziente schizoide sembra estremamente distaccato e autosufficiente ma internamente è sensibile e bisognoso, questa scissione tra modi di essere rende questi pazienti insicuri su chi sono, combattuti e ritirati. Il suo mantenersi lontano da relazioni significative è probabilmente un tentativo di non abdicare a un’autenticità di sé già difficoltosa dovuta ad un passato in cui le persone significative erano state vissute come poco interessate ai suoi bisogni.

In altre patologie riuscire ad essere se stessi non sembrerebbe difficoltoso, semmai la difficoltà è data dalle implicazioni di cosa significhi essere se stessi. In questi casi essere se stessi non sembrerebbe sinonimo di realizzazione e libertà, ma piuttosto d’indegnità con moti autosvalutanti: essere se stessi è associato a vergogna o colpa.

Nella depressione ad esempio la persona soffre non per l'impossibilità di definire chi è ma perché sente la menomazione di un sé strettamente legato a qualcosa o qualcuno che si è perso o che si esperisce come perduti; altre volte la persona depressa crede di percepire con certezza chi ella è ma esprime un giudizio estremamente negativo su se stessa.

Senza arrivare a questi estremi patologici, come si diceva all’inizio, per ognuno di noi essere chi siamo spesso somiglia più a un punto di arrivo che a uno di partenza. La difficoltà di un simile percorso è che la libertà di essere noi stessi la si è edificata, nel bene e nel male, sin da bambini nel rapporto con gli altri. Se da giovani e poi adulti questa libertà è ancora da costruire sarà quindi sempre nel rapporto con gli altri che ciò dovrà accadere. Sembra un paradosso ed è sicuramente un percorso per niente scontato quello in cui la relazione con l’altro ci permette di costruirci per chi potenzialmente siamo senza essere, anche involontariamente, suggestionati ad essere quello che l’altro crede che noi siamo o dovremmo essere. Per fortuna alcune persone che incontriamo nella vita sono più interessate a quello che di noi sentono sul punto di nascere, e che vivono come una promessa che già li fa sentire legati a noi; ci aiuteranno ad essere chi possiamo essere, amati proprio per quello. Altre volte il percorso risulta assai più accidentato: magari perché questi incontri felici avvengono molto in là nel tempo, o perché il contesto fa sì che queste relazioni siano problematiche depotenziandone la portata trasformativa, o per un’infinità di altri motivi. In alcuni casi queste persone sentiranno l’esigenza di rivolgersi ad uno psicologo. Quella con lo psicologo non è una relazione che possa sostituire gli altri rapporti, ma proprio per la sua peculiarità ha la potenzialità di trasformarli e di renderli trasformativi. Si tratta di una sorta di palestra in cui nella relazione con lo psicologo la persona impara a riconoscersi senza timore di essere giudicato, in cui allenarsi a nuovi modi di essere se stesso sempre più prossimi a una sensazione di autenticità.

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