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La ridente lacrima di Joker

Aggiornamento: 29 nov 2019

(Attenzione: contiene spoiler)


L’accusa più facile che l’eroe può fare all’antieroe è quella di follia, o ancor più facilmente di essere uno psicopatico. Ma quello che un simile eroe allora non vedrebbe sarebbe la somiglianza che lo lega al suo antagonista. Non solo nel senso che il suo antagonista è la propria nemesi (di quello può esserne consapevole). Non c’è bisogno di scomodare concetti quali yin e yang, degli opposti complementari e indissolubili. Piuttosto entrambi gli eroi sono il diverso frutto dello stesso seme, o rami divergenti dello stesso albero. Il dualismo eroe-antieroe è la rappresentazione di un dualismo di percorsi di vita. Entrambi, sia Joker che Batman, muovono i loro passi da un trauma nella propria esistenza. Gli esiti però divergono.

Non è predestinazione: le cose sarebbero potute andare diversamente. Eppure vi somiglia: nel vedere il film (e nel sentire le storie di certe esistenze) si sarebbe tentati di arrendersi ad un senso d’ineluttabilità. Se non fosse per quella sensazione disturbante che attraversa come un filo rosso il film e intreccia tutte quelle volte in cui Fleck avrebbe potuto essere trattato con cura o anche solo gentilezza, e che ti fa domandare come in quel caso sarebbero potute andate le cose.

Fantasticando su cosa ha resi diversi i destini di Fleck e Wayne la prima cosa che salta all’occhio è la differente rete di sostegno dell’uno e dell’altro. Batman è ricco, una ricchezza che una volta cresciuto userà a fin di bene, ma comunque ricco. Ma la ricchezza principale è il suo maggiordomo, molto più padre che domestico. Potremmo domandarci se Wayne sarebbe diventato Batman se una volta rimasto orfano avesse avuto i soldi ma non Alfred al suo fianco. Joker invece è peggio che solo, non ha neppure se stesso come vedremo in seguito. La sua sola risorsa, che forse non è tale, è una madre incapace di curarsi di lui. La società che sorride a Bruce Wayne è la stessa che mostra ad Arthur Fleck un ghigno privo di empatia se non francamente sadico, il prototipo di quel ghigno che diventerà la maschera di Joker. E’ come se Joker avesse fatto la propria maschera ad immagine e somiglianza della società che lo dileggiava o ignorava: la maschera di Joker finirà quindi con l’essere il suo atto di accusa verso il mondo. Il contraltare del sorriso forzosamente dipinto sul viso di Arthur è il viso inespressivo della sua psicologa o assistente sociale, sempre identico qualunque cosa accada a Fleck, che spaventa quanto o più della maschera da clown: è anche l’immagine del tradimento del proprio ruolo di cura, un volto che quindi finisce col somigliare al volto di un burocrate o, forse, il volto di chi smettendo di credere al proprio lavoro è diventata proprio malgrado una mera rappresentante di quella stessa società che ha voltato mille volte le spalle ad Arthur.

Ma la maschera da clown di Joker è anche qualcos'altro, racconta anche una storia più personale. E’ un sorriso immutabile, dipinto sul volto, che alla fine si dimostra né divertito né divertente, corrispettivo iconico della risata compulsiva e inespressiva che affligge Arthur quando è ansioso o imbarazzato. Non c’è gioia in quel sorriso, non c’è gioia in quella risata: sono entrambe promesse tradite, preghiere inascoltate. E’ la promessa tradita della madre di Arthur che gli ha mille volte ripetuto che sorridendo al mondo questo avrebbe sorriso in risposta. Il soprannome con cui la madre chiama Arthur, Happy, più che affettuoso risulta tragicamente ironico, il segno di una donna persa in un mondo idealizzato che non può vedere il vero volto e i bisogni del proprio figlio, un volto tutt'altro che felice. La frase scritta sullo specchio “Put a smile on your face” era il mantra che la madre gli aveva ripetuto fin dall’infanzia. Quel “Stampati un sorriso in faccia” sullo specchio finiva però col coprire il riflesso di Arthur un po’ come se simbolicamente coprisse il suo vero volto, come se coprisse fino quasi a cancellare le sue vere emozioni, il suo vero Sé; come se quella scritta sovrapposta al viso lo rendesse un po’ già quello il Joker. Quel mantra era un mandato materno a fingere con il mondo, ma quel che peggio era una consegna a fingere persino con se stesso. Lo stesso colore usato per scrivere quelle parole, e che quasi copriva la possibilità di Arthur di specchiarsi, veniva poi usato per dipingersi sul viso la maschera che lo avrebbe nascosto al mondo, non solo nello specchio del camerino, ma in tutti gli specchi lì fuori, perfino quello della propria casa.

Non è un caso che molte persone sono inquietate dall’immobilità del sorriso dei clown, quasi disturbate dall’impossibilità di conoscere i veri sentimenti che sottostanno a quel finto sorriso. Ma Joker non si comporta come un folle inconsapevole della propria follia. Egli sa bene l’inquietudine che può vivere sotto la maschera da clown e sa anche che per molti il viso di un clown è sempre un oscuro presentimento, la possibilità della violenza che si cela sotto un sorriso incongruente e immobile come un orologio rotto che indica l’ora e l’emozione giusta solo per caso o, nella migliore delle ipotesi, solo un paio di volte al giorno.

Ripensando al lungometraggio di Todd Phillips ho impiegato qualche istante per ricordare con certezza se nel film il protagonista fosse mai stato senza trucco. Invece che semplicemente imputare quella momentanea incertezza alla mia memoria, vedo piuttosto in questo qualcosa di significativo rispetto al mio modo di percepire il protagonista. Ovvero: anche nelle sequenze in cui il protagonista non era truccato evidentemente io l’avevo comunque percepito sempre con una maschera addosso. Arthur era stato condannato, dalla madre e dal mondo, a non poter essere se stesso. Anche senza il trucco non sarebbe mai potuto essere se stesso. Dipingerselo in volto questo destino deciso dagli altri era solo un modo per mettere in chiaro la cosa, un’ironica denuncia contro la società. Una denuncia che se inizialmente è inconsapevole a un certo punto diventa invece consapevole e devastante: un momento icasticamente segnalato da Joker che intinge il suo indice di accusa nel sangue usandolo a mo di pennello per allargare il sorriso sulle sue labbra già truccate.

Sbaglierebbe l’eroe che tacciasse l’oramai Joker di essere uno psicopatico. Lo psicopatico è incapace di provare sentimenti ed empatia. Joker ne è sommerso. La sua follia non è il derivato di un’incapacità di sentire ma lo scavalcamento di un coacervo di emozioni e sentimenti impossibile da gestire. Se è folle è anche vero che è innanzitutto folle di dolore. Traumatizzato da bambino e poi di nuovo e ancora da adulto.

Nel gioco delle carte il joker ha il potere di sovvertire il gioco, di riaprire un’inerzia che sembrava destino, di riaprire alle possibilità. Il joker, nonostante il suo ruolo dirompente, si mantiene però nella cornice delle regole, anzi è funzionale a dare vitalità a quel gioco che le regole salvaguardano. Eppure per il nostro Arthur Fleck/Joker le cose sembrerebbero stare diversamente. La sua follia è il folle scarto del cavallo di fronte al serpente velenoso; è, negli scacchi, la mossa divergente del cavallo. Ma la mossa del cavallo è una mossa falsamente incontrollata, falsamente anarchica. Ed infatti la risposta apparentemente anarchica di Joker è un’ulteriore accusa ad una società che più che trascendere l’individuo lo prescinde, lo controlla; o se non può controllarlo o non gli è utile allora lo dimentica e lo cancella. Egli è forse la reazione immunitaria di una società ormai incapace di fermarsi dal cannibalizzare se stessa; egli è forse il disperato e disfunzionale tentativo di sparigliare un gioco destinato alla sconfitta. Torna in mente l’Enrico IV di pirandelliana memoria che si finge folle ed in ultimo uccide, non si sa per certo se perché alla fine folle lo è diventato davvero o piuttosto come ultima disperata difesa (che però somiglia anche ad un resa) dalla follia del mondo. Joker è un Enrico IV all’ennesima potenza. Il suo narcisismo è la folle difesa da una più folle società. Il danzare di Joker è la trasposizione di un altro tipi di movimento, più intimo, e per questo impressiona tanto lo spettatore. E’ libertà che si fa corpo. La danza di Joker è il segno di un equilibrio finalmente raggiunto, di un Sé finalmente liberato, la pacata danza di vittoria di un Sé che privo di vincoli balla sulla tomba delle convenzioni e delle regole sociali. Ma è anche l’immensa nuova prigione di Joker. La caricatura personificata di tutto ciò che il mondo teme, fa di Joker un antieroe destinato a una diversa forma di solitudine. Le persone che, condividendo la sua fatica e la sua disperazione, assaltano la sua città non sono però i suoi fratelli. Non può infatti esserci reciprocità con loro, le loro storie hanno loro insegnato a distruggere ma non ad edificare da quelle macerie. Lo stesso Joker, pur essendo diventato un artista della distruzione, è ormai prigioniero della sua arte e in questo modo ne tradisce la portata potenzialmente rivoluzionaria o trasformativa. L’artista che è incapace di transitare dal mondo alla sua arte e viceversa, in un continuo andirivieni che arricchisce le sue opere ma anche il mondo, l’artista che sosta indefinitamente nella sua ormai fittizia creatività, come il sorriso sulla maschera di un clown, soffoca nella sua sterile libertà e si condanna ad una nuova solitudine: fugge ad una follia rovesciandola in una opposta. Eppure per un attimo Joker si sente libero: la risata alla fine del film, seppur prigioniero dentro un ospedale psichiatrico, è di natura diversa da tutte le altre precedenti: è l’unica genuina e libera. Come la corsa con i piedi insanguinati dall’ultimo assassinio: è la corsa di una persona che finalmente si sente libera e ricorda, incongruamente col sangue, la corsa di un bambino.

Dicevo che le persone che bruciano della stessa rabbia di Joker e con essa la città intera, pur condividendone la disperazione non possono esserne i fratelli. Paradossalmente invece la persona più simile a un fratello che Joker possa trovare è Batman. E forse non è un caso che per qualche breve istante Arthur si fosse illuso che il piccolo Bruce fosse suo fratello; e forse neppure è un caso che tutte le future azioni criminali di Joker sembrano seguire il doppio binario di voler distruggere l’ordine costituito e di cercare un qualche tipo di rapporto con Batman di cui non sembra poter fare a meno. Batman è l’incarnazione di un altro destino possibile. Di un altra ragione per la propria maschera. Batman è in un certo senso la possibilità di un Joker che potrebbe usare creativamente la sua creatività e diventare non solo l’antieroe di questo mondo, ma l’eroe di un nuovo mondo.





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