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  • La difficoltà di essere se stessi

    A molti sarà capitato in particolari situazioni di sentirsi spronato da un genitore o un fidanzato con una frase del tipo “Sii te stesso” o “Sentiti libero di essere te stesso”. A rifletterci su si tratta però di un suggerimento un po’ paradossale. Dopo un simile suggerimento saremmo davvero noi stessi o saremmo una versione di noi autorizzata, sia pure bonariamente, da qualcuno per il tramite di quel consiglio? Vi siete mediamente sentiti più oppure meno spontanei dopo un’ingiunzione come “Sii spontaneo!”? Prima almeno eravate spontaneamente impacciati, ma essere spontanei su richiesta di qualcuno è una contraddizione in termini. Anche quando non siamo di fronte a messaggi espliciti, seppur confusivi, come questi, tutto ciò che ci è permesso di essere sembrerebbe risentire dell’influenza degli altri. Dei genitori, del gruppo di amici, della società declinata nei suoi rappresentanti, nelle sue regole, nei costumi non scritti del “si fa così”. Non si parla solo di persone fisiche e di leggi vergate sui codici giuridici, ma anche e soprattutto dei loro fantasmi che si aggirano nel nostro mondo interno. In questo senso non siamo mai davvero soli anche nella solitudine della nostra camera. L’essere chi siamo in una simile prospettiva sembra qualcosa di residuale, finanche intimo e da proteggere. A volte le cose sono ancora più complicate e per taluni anche nei momenti più privati e nascosti lasciarsi andare ad essere chi sono risulta difficile, in taluni casi per queste persone è persino impossibile sentirsi certi di chi essi davvero siano. Ci sono infatti dei casi in cui sin da piccoli è richiesto non solo di trascurare il proprio desiderio e le proprie inclinazioni. Ma di fingere con se stessi che quella che è la volontà di altri fondamentali sia in realtà la propria volontà, ciò che davvero si vuole e si è e non ciò che questi altri vogliono che noi siamo. E’ una sorta di trapianto di volontà. Non si tratta di ubbidire a ciò che i genitori chiedono, cosa che rimane nel normale recinto dell’essere educati ai limiti entro e grazie ai quali è però possibile sviluppare la propria specificità, per poi quei limiti trascenderli invece di pericolosamente ignorarli. Si tratta piuttosto di qualcosa che opera in modo più subdolo e nascosto, quindi pericoloso per la nascente psiche del bambino: dinamiche del genere infatti possono avere conseguenze importanti sulla mente in maturazione del bambino che ne ipotecheranno anche la vita adulta. In questi casi si tratta spesso di genitori incapaci di accettare un desiderio del figlio che diverge dal loro, un’idea nascente di sé che diverge da quello che i genitori vorrebbero che lui fosse, e che li induce a premere implicitamente o esplicitamente perché il bambino neghi parti di sé nascenti e originali piegandole alla loro volontà e ai loro desideri. Un risultato possibile è ciò che uno psicoanalista di nome Winnicott ha chiamato falso-Sé. La necessità di mantenere la protezione e l’amore dei genitori ha in questi casi come risultato la rinuncia alla propria nascente e originale personalità. Accedere alla parti più autentiche di sé in questo caso diventa assai difficile se non quasi impossibile poiché quelle parti sono rimaste embrionali, parti quasi abortite o sacrificate sull’altare di genitori piegati sulle esigenze proprie o della società piuttosto che su quelle del bambino. Quindi genitori che, ad esempio, cercano di realizzarsi nei figli e che quindi non possono tollerare che questi intraprendano scelte autonome; o che vivono come pericoloso per loro stessi ogni quota di originalità e diversità; o che vivono la nascente libertà del figlio come un’attentato al buon senso o al senso comune della società, di cui loro sono, troppo pedissequamente, i rappresentanti nei confronti dei propri bambini. Non si tratta solitamente di adulti mal intenzionati, né necessariamente malati o egoisti. Sono più facilmente genitori che credono di operare per il meglio dei propri figli e, per così dire, al servizio del giusto. Questi genitori inducono però nei figli la sensazione che essi esistono per gli altri, ponendo i loro bambini in una situazione di scacco nel tentativo di provare a salvaguardare al contempo la loro personalità nascente ma anche il legame vitale con i propri genitori. Bambini così possono persino arrivare ad imparare una fondamentale sfiducia nei propri sensi e di quanto percepito come reale perché perennemente disconfermato dai genitori o in contraddizione con il mandato genitoriale. In situazioni limite questo dilemma può finanche diventare patologia psichica. Gaburri e Ambrosiano sono due psicoanalisti che hanno posto in rilievo la delicata responsabilità dei genitori che sono, consapevoli o meno, presso i propri figli i rappresentati del senso comune della società. Il senso comune è quella base condivisa che accomuna la percezione degli individui di una certa cultura, cose date per certe e che consentono ad ogni individuo il legame con ogni altro, la possibilità d’intendersi e così via. Ma il confine tra senso comune e pressione conformistica può essere labile: lo sconfinamento su un versante più conformistico perverte infatti il senso comune in dogmatismo, automatismo cieco, la banalizzazione di ogni sopruso in nome del comune sentire. Il senso comune da base per la condivisione diventa un censore e un castigatore di quote di originalità, interne a noi o esterne, troppo divergenti con la mentalità comune. La diversità non è percepita come linfa vitale per il gruppo e la società, ma è vista come intollerabile, oggetto di pressioni al fine di essere riassorbita o, ove ciò non fosse possibile, in alternativa soppressa in svariati modi. Un grande psicoanalista di nome Bion ha affermato che alcuni disturbi mentali sono il tentativo disperato e narcisistico di resistere a questo assalto gruppale contro il proprio sé. A proposito di narcisismo si potrebbe pensare che tra i difetti dei narcisisti non ci sia di certo il fatto che manchino di spontaneità nell’essere e mostrare chi sono. In realtà l’atteggiamento grandioso e autoreferenziale del narcisista serve a tamponare o mascherare una vuota ferita al proprio sé, un disperato tentativo di puntellare la propria autostima, di difendersi dal dipendere dagli altri nonché da un incombente senso di vuoto. Le personalità “come-se” invece cercano di supplire con un eccesso di conformismo a un senso di mancanza di vitalità interiore, di percepita assenza di un sé definito, quasi come se potessero assumere vita e contorni più definiti per adesione fintamente emozionata a qualcosa o qualcuno. Agiscono come se sentissero determinate emozioni, come se credessero in qualcosa, come se fossero interessate a qualcosa o qualcuno. Il “come-se” è funzionale a nascondere un profondo vissuto di vuoto e indefinitezza. L’instabilità della percezione di sé, il senso di vuoto, la polarizzazione dei vissuti nei confronti degli altri (che sono visti come del tutto buoni o del tutto cattivi, giudizi però estremamente suscettibili ad essere capovolti e contraddetti) sono tra le caratteristiche principali del disturbo borderline di personalità. Nel disturbo dipendente di personalità il soggetto è dubbioso e non basta a se stesso, ha bisogno di essere costantemente ancorato a qualcuno, a volta fantasticando che diventando come l’oggetto della sua idealizzazione tutti i suoi problemi si risolveranno. Il paziente schizoide sembra estremamente distaccato e autosufficiente ma internamente è sensibile e bisognoso, questa scissione tra modi di essere rende questi pazienti insicuri su chi sono, combattuti e ritirati. Il suo mantenersi lontano da relazioni significative è probabilmente un tentativo di non abdicare a un’autenticità di sé già difficoltosa dovuta ad un passato in cui le persone significative erano state vissute come poco interessate ai suoi bisogni. In altre patologie riuscire ad essere se stessi non sembrerebbe difficoltoso, semmai la difficoltà è data dalle implicazioni di cosa significhi essere se stessi. In questi casi essere se stessi non sembrerebbe sinonimo di realizzazione e libertà, ma piuttosto d’indegnità con moti autosvalutanti: essere se stessi è associato a vergogna o colpa. Nella depressione ad esempio la persona soffre non per l'impossibilità di definire chi è ma perché sente la menomazione di un sé strettamente legato a qualcosa o qualcuno che si è perso o che si esperisce come perduti; altre volte la persona depressa crede di percepire con certezza chi ella è ma esprime un giudizio estremamente negativo su se stessa. Senza arrivare a questi estremi patologici, come si diceva all’inizio, per ognuno di noi essere chi siamo spesso somiglia più a un punto di arrivo che a uno di partenza. La difficoltà di un simile percorso è che la libertà di essere noi stessi la si è edificata, nel bene e nel male, sin da bambini nel rapporto con gli altri. Se da giovani e poi adulti questa libertà è ancora da costruire sarà quindi sempre nel rapporto con gli altri che ciò dovrà accadere. Sembra un paradosso ed è sicuramente un percorso per niente scontato quello in cui la relazione con l’altro ci permette di costruirci per chi potenzialmente siamo senza essere, anche involontariamente, suggestionati ad essere quello che l’altro crede che noi siamo o dovremmo essere. Per fortuna alcune persone che incontriamo nella vita sono più interessate a quello che di noi sentono sul punto di nascere, e che vivono come una promessa che già li fa sentire legati a noi; ci aiuteranno ad essere chi possiamo essere, amati proprio per quello. Altre volte il percorso risulta assai più accidentato: magari perché questi incontri felici avvengono molto in là nel tempo, o perché il contesto fa sì che queste relazioni siano problematiche depotenziandone la portata trasformativa, o per un’infinità di altri motivi. In alcuni casi queste persone sentiranno l’esigenza di rivolgersi ad uno psicologo. Quella con lo psicologo non è una relazione che possa sostituire gli altri rapporti, ma proprio per la sua peculiarità ha la potenzialità di trasformarli e di renderli trasformativi. Si tratta di una sorta di palestra in cui nella relazione con lo psicologo la persona impara a riconoscersi senza timore di essere giudicato, in cui allenarsi a nuovi modi di essere se stesso sempre più prossimi a una sensazione di autenticità. #esseresestessi #spontaneità #falsoSé

  • La ridente lacrima di Joker

    (Attenzione: contiene spoiler) L’accusa più facile che l’eroe può fare all’antieroe è quella di follia, o ancor più facilmente di essere uno psicopatico. Ma quello che un simile eroe allora non vedrebbe sarebbe la somiglianza che lo lega al suo antagonista. Non solo nel senso che il suo antagonista è la propria nemesi (di quello può esserne consapevole). Non c’è bisogno di scomodare concetti quali yin e yang, degli opposti complementari e indissolubili. Piuttosto entrambi gli eroi sono il diverso frutto dello stesso seme, o rami divergenti dello stesso albero. Il dualismo eroe-antieroe è la rappresentazione di un dualismo di percorsi di vita. Entrambi, sia Joker che Batman, muovono i loro passi da un trauma nella propria esistenza. Gli esiti però divergono. Non è predestinazione: le cose sarebbero potute andare diversamente. Eppure vi somiglia: nel vedere il film (e nel sentire le storie di certe esistenze) si sarebbe tentati di arrendersi ad un senso d’ineluttabilità. Se non fosse per quella sensazione disturbante che attraversa come un filo rosso il film e intreccia tutte quelle volte in cui Fleck avrebbe potuto essere trattato con cura o anche solo gentilezza, e che ti fa domandare come in quel caso sarebbero potute andate le cose. Fantasticando su cosa ha resi diversi i destini di Fleck e Wayne la prima cosa che salta all’occhio è la differente rete di sostegno dell’uno e dell’altro. Batman è ricco, una ricchezza che una volta cresciuto userà a fin di bene, ma comunque ricco. Ma la ricchezza principale è il suo maggiordomo, molto più padre che domestico. Potremmo domandarci se Wayne sarebbe diventato Batman se una volta rimasto orfano avesse avuto i soldi ma non Alfred al suo fianco. Joker invece è peggio che solo, non ha neppure se stesso come vedremo in seguito. La sua sola risorsa, che forse non è tale, è una madre incapace di curarsi di lui. La società che sorride a Bruce Wayne è la stessa che mostra ad Arthur Fleck un ghigno privo di empatia se non francamente sadico, il prototipo di quel ghigno che diventerà la maschera di Joker. E’ come se Joker avesse fatto la propria maschera ad immagine e somiglianza della società che lo dileggiava o ignorava: la maschera di Joker finirà quindi con l’essere il suo atto di accusa verso il mondo. Il contraltare del sorriso forzosamente dipinto sul viso di Arthur è il viso inespressivo della sua psicologa o assistente sociale, sempre identico qualunque cosa accada a Fleck, che spaventa quanto o più della maschera da clown: è anche l’immagine del tradimento del proprio ruolo di cura, un volto che quindi finisce col somigliare al volto di un burocrate o, forse, il volto di chi smettendo di credere al proprio lavoro è diventata proprio malgrado una mera rappresentante di quella stessa società che ha voltato mille volte le spalle ad Arthur. Ma la maschera da clown di Joker è anche qualcos'altro, racconta anche una storia più personale. E’ un sorriso immutabile, dipinto sul volto, che alla fine si dimostra né divertito né divertente, corrispettivo iconico della risata compulsiva e inespressiva che affligge Arthur quando è ansioso o imbarazzato. Non c’è gioia in quel sorriso, non c’è gioia in quella risata: sono entrambe promesse tradite, preghiere inascoltate. E’ la promessa tradita della madre di Arthur che gli ha mille volte ripetuto che sorridendo al mondo questo avrebbe sorriso in risposta. Il soprannome con cui la madre chiama Arthur, Happy, più che affettuoso risulta tragicamente ironico, il segno di una donna persa in un mondo idealizzato che non può vedere il vero volto e i bisogni del proprio figlio, un volto tutt'altro che felice. La frase scritta sullo specchio “Put a smile on your face” era il mantra che la madre gli aveva ripetuto fin dall’infanzia. Quel “Stampati un sorriso in faccia” sullo specchio finiva però col coprire il riflesso di Arthur un po’ come se simbolicamente coprisse il suo vero volto, come se coprisse fino quasi a cancellare le sue vere emozioni, il suo vero Sé; come se quella scritta sovrapposta al viso lo rendesse un po’ già quello il Joker. Quel mantra era un mandato materno a fingere con il mondo, ma quel che peggio era una consegna a fingere persino con se stesso. Lo stesso colore usato per scrivere quelle parole, e che quasi copriva la possibilità di Arthur di specchiarsi, veniva poi usato per dipingersi sul viso la maschera che lo avrebbe nascosto al mondo, non solo nello specchio del camerino, ma in tutti gli specchi lì fuori, perfino quello della propria casa. Non è un caso che molte persone sono inquietate dall’immobilità del sorriso dei clown, quasi disturbate dall’impossibilità di conoscere i veri sentimenti che sottostanno a quel finto sorriso. Ma Joker non si comporta come un folle inconsapevole della propria follia. Egli sa bene l’inquietudine che può vivere sotto la maschera da clown e sa anche che per molti il viso di un clown è sempre un oscuro presentimento, la possibilità della violenza che si cela sotto un sorriso incongruente e immobile come un orologio rotto che indica l’ora e l’emozione giusta solo per caso o, nella migliore delle ipotesi, solo un paio di volte al giorno. Ripensando al lungometraggio di Todd Phillips ho impiegato qualche istante per ricordare con certezza se nel film il protagonista fosse mai stato senza trucco. Invece che semplicemente imputare quella momentanea incertezza alla mia memoria, vedo piuttosto in questo qualcosa di significativo rispetto al mio modo di percepire il protagonista. Ovvero: anche nelle sequenze in cui il protagonista non era truccato evidentemente io l’avevo comunque percepito sempre con una maschera addosso. Arthur era stato condannato, dalla madre e dal mondo, a non poter essere se stesso. Anche senza il trucco non sarebbe mai potuto essere se stesso. Dipingerselo in volto questo destino deciso dagli altri era solo un modo per mettere in chiaro la cosa, un’ironica denuncia contro la società. Una denuncia che se inizialmente è inconsapevole a un certo punto diventa invece consapevole e devastante: un momento icasticamente segnalato da Joker che intinge il suo indice di accusa nel sangue usandolo a mo di pennello per allargare il sorriso sulle sue labbra già truccate. Sbaglierebbe l’eroe che tacciasse l’oramai Joker di essere uno psicopatico. Lo psicopatico è incapace di provare sentimenti ed empatia. Joker ne è sommerso. La sua follia non è il derivato di un’incapacità di sentire ma lo scavalcamento di un coacervo di emozioni e sentimenti impossibile da gestire. Se è folle è anche vero che è innanzitutto folle di dolore. Traumatizzato da bambino e poi di nuovo e ancora da adulto. Nel gioco delle carte il joker ha il potere di sovvertire il gioco, di riaprire un’inerzia che sembrava destino, di riaprire alle possibilità. Il joker, nonostante il suo ruolo dirompente, si mantiene però nella cornice delle regole, anzi è funzionale a dare vitalità a quel gioco che le regole salvaguardano. Eppure per il nostro Arthur Fleck/Joker le cose sembrerebbero stare diversamente. La sua follia è il folle scarto del cavallo di fronte al serpente velenoso; è, negli scacchi, la mossa divergente del cavallo. Ma la mossa del cavallo è una mossa falsamente incontrollata, falsamente anarchica. Ed infatti la risposta apparentemente anarchica di Joker è un’ulteriore accusa ad una società che più che trascendere l’individuo lo prescinde, lo controlla; o se non può controllarlo o non gli è utile allora lo dimentica e lo cancella. Egli è forse la reazione immunitaria di una società ormai incapace di fermarsi dal cannibalizzare se stessa; egli è forse il disperato e disfunzionale tentativo di sparigliare un gioco destinato alla sconfitta. Torna in mente l’Enrico IV di pirandelliana memoria che si finge folle ed in ultimo uccide, non si sa per certo se perché alla fine folle lo è diventato davvero o piuttosto come ultima disperata difesa (che però somiglia anche ad un resa) dalla follia del mondo. Joker è un Enrico IV all’ennesima potenza. Il suo narcisismo è la folle difesa da una più folle società. Il danzare di Joker è la trasposizione di un altro tipi di movimento, più intimo, e per questo impressiona tanto lo spettatore. E’ libertà che si fa corpo. La danza di Joker è il segno di un equilibrio finalmente raggiunto, di un Sé finalmente liberato, la pacata danza di vittoria di un Sé che privo di vincoli balla sulla tomba delle convenzioni e delle regole sociali. Ma è anche l’immensa nuova prigione di Joker. La caricatura personificata di tutto ciò che il mondo teme, fa di Joker un antieroe destinato a una diversa forma di solitudine. Le persone che, condividendo la sua fatica e la sua disperazione, assaltano la sua città non sono però i suoi fratelli. Non può infatti esserci reciprocità con loro, le loro storie hanno loro insegnato a distruggere ma non ad edificare da quelle macerie. Lo stesso Joker, pur essendo diventato un artista della distruzione, è ormai prigioniero della sua arte e in questo modo ne tradisce la portata potenzialmente rivoluzionaria o trasformativa. L’artista che è incapace di transitare dal mondo alla sua arte e viceversa, in un continuo andirivieni che arricchisce le sue opere ma anche il mondo, l’artista che sosta indefinitamente nella sua ormai fittizia creatività, come il sorriso sulla maschera di un clown, soffoca nella sua sterile libertà e si condanna ad una nuova solitudine: fugge ad una follia rovesciandola in una opposta. Eppure per un attimo Joker si sente libero: la risata alla fine del film, seppur prigioniero dentro un ospedale psichiatrico, è di natura diversa da tutte le altre precedenti: è l’unica genuina e libera. Come la corsa con i piedi insanguinati dall’ultimo assassinio: è la corsa di una persona che finalmente si sente libera e ricorda, incongruamente col sangue, la corsa di un bambino. Dicevo che le persone che bruciano della stessa rabbia di Joker e con essa la città intera, pur condividendone la disperazione non possono esserne i fratelli. Paradossalmente invece la persona più simile a un fratello che Joker possa trovare è Batman. E forse non è un caso che per qualche breve istante Arthur si fosse illuso che il piccolo Bruce fosse suo fratello; e forse neppure è un caso che tutte le future azioni criminali di Joker sembrano seguire il doppio binario di voler distruggere l’ordine costituito e di cercare un qualche tipo di rapporto con Batman di cui non sembra poter fare a meno. Batman è l’incarnazione di un altro destino possibile. Di un altra ragione per la propria maschera. Batman è in un certo senso la possibilità di un Joker che potrebbe usare creativamente la sua creatività e diventare non solo l’antieroe di questo mondo, ma l’eroe di un nuovo mondo. #film #trauma #Joker #Batman #JoaquinPhoenix #ArthurFleck

  • Un mondo d'ansia

    Cos'è l’ansia e perché si prova ansia? Sono questi due interrogativi che probabilmente chi soffre o ha sofferto di ansia si è posto. L’ansia è un disturbo per nulla infrequente. Facilmente ognuno di noi ha attraversato periodi in cui si è sperimentato ansioso e che ci hanno reso consapevoli di quanto questa sensazione possa essere disturbante. Questo è tanto più vero quando non si riesce ad individuare una causa per le nostre angosce, che possono essere allora vissute come insensate: questo vissuto rende più faticoso e frustrante uno stato che oltre che assai spiacevole può diventare francamente doloroso. Eppure l’ansia di per sé non sarebbe qualcosa di negativo. Dal punto di vista evolutivo l’ansia ha un significato altamente adattivo: ci segnala infatti che siamo di fronte ad una situazione di potenziale pericolo e ci motiva ad attivare le nostre risorse per fronteggiare un’eventualità dannosa, dannosa non solo per la nostra integrità fisica ma anche per quella psicologica. Se non provassimo ansia in situazioni oggettivamente pericolose saremmo portati a sottovalutare i rischi e ad incorrere in danni anche seri. E’ saggezza comune distinguere chi è avventato da chi è coraggioso: l’audace non è privo di paure ma sa gestirle ed agisce nonostante queste tenendone però efficacemente conto. Non c’è eroismo senza percezione del rischio. Ma anche quando non corriamo rischi per la nostra incolumità fisica l’ansia può essere funzionale ai nostri interessi e al nostro benessere. Chi non ricorda, da studenti, naturalmente se si è avuto in sorte dei professori mediamente sani, il caso banale di un nervosismo che ci segnalava che forse non eravamo adeguatamente preparati ad affrontare l’interrogazione e che ci motivava a studiare di più (o come alternativa e scorciatoia a saltare la scuola). Insomma nella sua dimensione sana l’ansia ci segnala una situazione potenzialmente problematica o rischiosa e ci prepara e motiva a risolvere il problema o ad affrontare il pericolo nel miglior modo possibile. Il vero problema è quando l’ansia diventa invece una spia e una sirena di pericolo frequentemente o perennemente accesa, o accesa in momenti inopportuni o apparentemente senza un vero pericolo all’orizzonte. Allora non solo perde la sua utilità ma può diventare un molesto rumore di sottofondo ai nostri pensieri, un’insopportabile retrogusto in tutte le nostre emozioni, una sfiancante attivazione fisica di un corpo sempre teso per un pericolo perennemente incombente. Nel mondo animale la paura di fronte ad un pericolo, ad esempio un predatore, causa una catena di risposte fisiologiche nell'organismo al fine di mobilitare tutte le risorse possibili in difesa della propria sopravvivenza attaccando la minaccia o fuggendo da essa. Si tratta però di un' attivazione di risorse destinata ad esaurirsi in un tempo breve cioè finché il pericolo è presente. Nell'uomo i pericoli non sono solo minacce all'integrità fisica e il senso di pericolo può perdurare a lungo perfino indefinitamente. Paradossalmente l’ansia quando patologica continua a lavorare per il nostro benessere ma lo fa in un modo che finisce per pervertire e tradire la sua funzione. Invece di segnalarci un possibile danno essa stessa ci danneggia. Nelle fobie, ad esempio, pur sapendo consapevolmente che è improbabile che quella situazione o quell'oggetto rappresentino un serio pericolo per l’incolumità si reagisce come se invece quell'evenienza fosse quasi certa o fosse quasi certo il fatto che il danno sarà ragguardevole. Nella fobia sociale non è qualcosa di specifico a mettere in agitazione ma è come se il mondo nella sua interezza fosse tutto sommato un posto assai pericoloso. Nel disturbo d’ansia generalizzato l’ansia invece di stimolarci a mettere in campo strumenti a presidio e difesa del nostro presente e futuro, nostro e dei nostri cari, diventa costante e debilitante timore per ogni aspetto dell’esistenza, timore per tutte le evenienze che potrebbero mettere in forse la nostra sicurezza esistenziale, fisica, finanziaria e così via. Gli attacchi di panico rappresentano una delle manifestazioni più eclatanti dei livelli che l’ansia può toccare. Se l'ansia è una spia accesa sul nostro cruscotto mentale, che ci segnala una situazione di pericolo, nell'attacco di panico tutte le spie sono accese e l'angoscia è totalizzante, non rimane spazio per alcuna possibile riflessione schiacciata da una sensazione di disastro incombente. Il carattere estremamente disturbante dell’ansia fa sì in alcuni casi si sviluppi un’ansia di secondo livello chiamata ansia anticipatoria, ovvero si diventa ansiosi di essere ansiosi, cioè si è ansiosi riguardo la possibilità di un nuovo episodio acuto di ansia quale quello negli attacchi di panico. Il fatto è che la mente umana lavora a molti livelli, solamente l’ultimo dei quali produce pensieri, emozioni e immagini di cui siamo pienamente consapevoli. La presenza di un’ansia incomprensibile o che seppure comprensibile è effettivamente esagerata per l’entità del rischio che corriamo, spesso è lì a segnalarci di rischi di cui non siamo consapevoli e di cui non possiamo essere consapevoli per una serie di motivi diversi come diversa è la storia di ognuno di noi. Si può arrivare al punto dolorosamente ironico che a volte l’ansia patologica ci fa star male proprio perché una parte di noi teme di poter diventare consapevole di pensieri emozioni o ricordi che metterebbero in forse l’idea che abbiamo di noi stessi col timore di non poter fare più affidamento su noi stessi e di conseguenza sull'affidabilità del nostro armamentario di “strumenti” con cui fino a quel momento abbiamo affrontato le difficoltà quotidiane. Così in certa ansia paradossalmente una paura, per quanto persistente e dolorosa, è preferibile ad una paura più grande che riguarda il crollo delle certezze su chi siamo. Oppure l’ansia può segnalarci il pericolo di un senso di vergogna che potremmo provare se diventassimo consapevoli di certi pensieri o di certe emozioni. Oppure difenderci dalla consapevolezza di nutrire anche emozioni di rabbia che però temiamo potrebbero ferire chi amiamo e quindi noi stessi. O ancora l’ansia potrebbe volerci segnalare il rischio di pensare talune cose di persone fondamentali della nostra vita, eventualità che però ci lascerebbe in balia della sensazione di essere fondamentalmente soli. E si potrebbe andare avanti con molti altri esempi. Confrontarsi con conflitti sconosciuti dentro di noi o con paure fondamentali non è mai facile, non lo è mai per nessuno di noi, né è istantaneo, e non è neppure questione di forza di volontà che semmai, quando tirata in ballo seppur con le migliori intenzioni, rischia di farci sentire incompresi o colpevoli del proprio stesso star male. Pensare di usare tecniche o farmaci, non tanto come a volte necessario ausilio nell'affrontare i sintomi, ma come cura quasi chirurgica delle cause di questi, è nel migliore dei casi quantomeno ottimistico. Come per altri disturbi seppure i sintomi sembrano identici per tutti i pazienti in realtà non esiste l’ansia come entità astratta: uno stesso sintomo ha un significato del tutto unico per quella persona quanto unica è il suo sé e la sua storia. E’ una distinzione questa, che gli psicofarmaci, non possono fare. Quello che si propone una psicoterapia psicodinamica è che il paziente, in collaborazione col terapeuta, diventi consapevole di quale pericolo o conflitto l’ansia stia segnalandogli, di quale significato essa rivesta per lui. E seppure questa non sia la tappa finale del viaggio ne è sicuramente una fondamentale. #ansia #panico #angoscia #psicoterapiapsicoanalitica

  • Cos'è un percorso psicologico

    Ci sono varie definizioni possibili di cosa sia una psicoterapia per le quali rimando ad una buona enciclopedia online. Del resto la psicoterapia è molte cose e la maggior parte delle definizioni sono incomplete finché non la si sperimenta personalmente. Anche per questo preferisco provare a tratteggiarne uno schizzo, evocando un’immagine, invece semplicemente di dare una definizione che facilmente si dimentica. Non si tratta tanto di un percorso di guarigione ma piuttosto di cura, nel senso di prendersi cura di sé. L’idea è quello di un ponte, di un attraversamento, di un viaggio. E’ un percorso che non s’intraprende in solitaria, come ogni buon viaggio avventuroso che si rispetti che non andrebbe infatti affrontato da soli. Il compagno di viaggio non è più esperto del paziente sui suoi paesaggi interni, ma solo sulle tecniche con cui affrontare i tratti più complicati. E non è un giudice su come il paziente è o dovrebbe essere; infatti l’obiettivo che si propone per il paziente non è che questi sia in un modo piuttosto che un altro. L’obiettivo non è neppure che il paziente approdi ad una versione migliore di sé, ma semmai più libera, anche da eventuali sintomi. Piuttosto la psicoterapia somiglia a un viaggio insieme di avvicinamento a se stessi e di costruzione di sé: un sé che non ha bisogno né di essere aggiustato né di essere rivoluzionato, ma raggiunto. E nel mentre ci si avvicina a sé sarà il viaggio stesso ad insegnare nuovi modi più funzionali e meno dolorosi per essere se stessi. Se allora volessi dare un’immagine, tra le tante cose che è, la psicoterapia è un ponte tra il sé di ora e un sé possibile, ed è il viaggio ancor prima che il mezzo di trasporto. Parlo di un’immagine e non di due perché ogni viaggio è anche un ponte. Un ponte tra il punto e il momento in cui partiamo e quelli della nostra meta. La meta non è data una volta per tutte. Durante il viaggio la meta stessa cambia nel mentre noi cambiamo, ridefinita da tutto ciò che durante il viaggio incontreremo e faremo. Come ogni percorso di esplorazione e di trasformazione di sé si tratta qualcosa di assolutamente intimo e personale. Seppure appaia come paradossale si tratta in realtà di una contraddizione solo in apparenza: lo psicologo è un compagno di viaggio che viaggia con il paziente e non al posto suo. E’ solo nella relazione con un' altra persona esperta nelle tecniche del viaggio che certi panorami acquisiscono tutto il loro personalissimo significato. D'altro canto si può dire che lo psicologo curi attraverso se stesso e la relazione che egli instaura col paziente.

© Antonino Puglisi - Tutti i diritti riservati
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