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16 elementi trovati per ""

  • Oltre Lilith

    Del mito di Lilith si trova traccia in numerose culture con accenti e sfumature diverse. Di queste sono interessanti due declinazioni: Lilith come una donna che non si sottomette all’uomo; Lilith come un demone che si ribella soprattutto contro Dio. C’è un famoso dipinto di Collier che sembra raccontare questo secondo scenario, in cui questa scelta di campo sembra essere rappresentata da una Lilith che è avviluppata dalle spire del serpente: come a dire che ci sono due diversi aspetti della seduzione al male che si alleano. Nella figura femminile del dipinto la malvagità sembrerebbe declinarsi in modo ambiguo: nella bellezza della sua nudità e nel suo sorriso ammiccante e compiaciuto; quindi un male sinuoso, difficile da discernere, seducente se non persino sessualizzato. Al di là delle intenzioni dell’artista, più che una rappresentazione sessualizzata del male e della donna il dipinto evoca delle tensioni erotiche invece che banalmente sessualizzanti, ed ironiche invece che banalmente ammiccanti. La nudità di Lilith e il suo eros finisce col somigliare alla canzonatura dello stereotipo sessualizzato e sessista: Lilith usa il pregiudizio contro il pregiudizio. Se infatti il serpente ha sedotto Eva, nella mia favola è Lilith che seduce il serpente invece che esserne sedotta. Lilith è una donna che entra nella propria vita. Lo fa a modo suo: non a modo di Eva ma nemmeno di Adamo, che Lilith non scimmiotta. La via di Lilith è senza ipocrisia: mentre Eva è stata ricoperta da una foglia di fico, Lilith è nuda. Ma non è nuda per sedurre l'uomo. È nuda perché lo vuole, è nuda perché può, è nuda per intrappolare il serpente che dovrebbe irretirla, è nuda perché è ironica come il suo sorriso. Credere che la seduzione o la nudità sia sempre una funzione del sesso o dell'uomo è forse un altro pregiudizio. Immagino questa Lilith in conflitto con se stessa, tra luce e oscurità, la immagino deviante e divertita, non riesco a vederla come un demone cupo e monotono. Si copre con il serpente al posto della foglia di fico, gioca con il (pre)giudizio e lo emette contro gli altri, ritorce il pregiudizio contro i moralizzatori che moralizzando si trastullano con l’idea di ciò su cui moralizzano: è creatrice di potenziali paradossi, può essere temibile ma sa essere giocosa, sa essere oscura e sa essere adamantina e a volte incredibilmente lei è entrambe le cose, insomma è fatta di vita. La mia favola va oltre. Quello rappresentato nel dipinto potrebbe essere un momento di passaggio: Eva che intraprende la strada per essere Lilith. Forse Lilith è il nome di Eva dopo aver percorso il suo sentiero. Forse è una distorsione ottica che Eva e Lilith fossero due figure mitologiche distinte, ma piuttosto la seconda è l’evoluzione della prima. Forse nel dipinto di Collier è raffigurato un passaggio di confine, una Eva che sta diventando Lilith. Comunque si nasca Lilith bisogna in qualche modo diventarlo, su un sentiero che è il proprio personalissimo. Questa possibilità la preferisco perché mi sembra connessa a una libertà più vera e riferita a se stesse ma intessuta nelle relazioni, negli incontri della propria vita, invece che a una versione di libertà meramente contrapposta a qualcosa (contro l’uomo o contro Dio). L’idea di una Lilith unicamente contro qualcosa e contro un destino sottomesso è un’idea priva di vero potenziale e che non le rende giustizia. La pittura di Collier è solo un’istantanea, comunque la si voglia vedere probabilmente la storia non è tutta lì: tutto può succedere dentro quel sorriso tra lei e il serpente. La scelta senza scelta di Eva era tra sottomettersi ad Adamo o sottomettersi alla tentazione del serpente; se sottomettersi al maschile e alla sua idea di femminile o se porsi in opposizione ad essa assecondando comunque una volontà non sua. Eva diventando Lilith edifica una scelta non data, la strada difficile ma necessaria di conoscere e costruire, in una trama di relazioni, la propria personalissima femminilità per se stessa invece che solamente come o contro qualcosa. Non si nasce soltanto donna bisogna in qualche modo anche diventare quella particolarissima donna. E per diventarlo è insufficiente non essere Eva, ed è insufficiente perfino essere Lilith: bisogna anche andare oltre Lilith per essere sé stesse.

  • La favola dello scorpione che non era uno scorpione e della rana che non era una rana

    C'è una favola, raccontata da Esopo, che narra le vicende di una rana e di uno scorpione. E' una favola che ho ritrovato citata in molti film e serie tv, quindi è possibile che se non l'abbiate letta l'abbiate almeno ascoltata. Per chi invece non la conoscesse provo a riassumerla. Uno scorpione volendo guadare un fiume chiede ad una rana di permettergli di salirle sul dorso e di portarlo sulla riva opposta visto che, essendo uno scorpione, lui non sa nuotare. La rana declina gentilmente la richiesta intimorita dalla possibilità che lo scorpione potesse pungerla. Lo scorpione oppone però al timore del piccolo anfibio una logica apparentemente inattaccabile: "Perché dovrei farlo? Se lo facessi morirei anch'io annegato". La rana è persuasa dalla sensatezza di quanto detto dallo scorpione e così accetta di portarlo dall'altra parte del fiume. A metà della traversata sente qualcosa pungerla e realizza sgomenta di essere appena stata avvelenata dallo scorpione. Incredula gli si rivolge chiedendogli perché lo avesse fatto: "Ora moriremo entrambi". Lo scorpione con un tono ineluttabile risponde: "E' vero, moriremo entrambi. Ma non ho potuto farne a meno: questa è la mia natura". La morale che comunemente si attribuisce alla favola riguarda l’impossibilità di contrastare, nel bene (?) o nel male, le proprie inclinazioni: aggressività o gentilezza o ingenuità, sembrerebbero destinate all'immutabilità e per giunta forse innate. Naturalmente alcuni di voi potrebbero essere d'accordo con questa morale ma altri opporvisi e ribattere che gli uomini non sono rane o scorpioni e che hanno ampi margini di scelta per contrastare certe proprie inclinazioni. Io credo che in realtà tutte e due le considerazioni siano parzialmente inesatte. Proverò ad illustrarvi una terza possibilità. Ognuno di noi credo abbia incontrato delle persone che sembrano drammaticamente incarnare l'esattezza della favola raccontata da Esopo. Magari l'amico che finisce sempre a letto con donne con cui non instaura mai una relazione duratura le quali magari, per chiudere il cerchio, a loro volta finiscono sempre a letto con uomini che non rimarranno mai lì per loro. Oppure l’amico che soffre per essersi fidato di una persona che a chiunque altro sembrava una serpe e che finisce nuovamente e sempre nelle spire asfissianti o velenose di quella o di un'altra serpe. Ma senza arrivare ad esempi eclatanti credo che ognuno di noi a volte abbia avuta la sensazione di ritrovarsi con spiacevole frequenza in situazioni fin troppo simili come se si avesse una sorta di radar interno che ci permettesse di scovarle e un magnete che ci attirasse inevitabilmente ad esse. E per quanto ci siano situazioni o aspetti di noi che non ci fanno star bene spesso ci sembra un compito quasi impossibile fare qualcosa per rompere quel cerchio che si ripete e da cui vorremmo uscire. Non nasciamo però semplicemente rane o scorpioni. La natura è a volte abusata altre usata come pretesto per non sentirsi responsabili delle conseguenze delle proprie scelte. A qualcun altro verrà la tentazione di dire che è vero non nasciamo rane o scorpioni e che è il mondo a renderci tali: ma anche questa versione sembra intrappolarci in un destino già scritto che di diverso ha solo il nome. La genetica incontra sempre un ambiente familiare e sociale e una cultura, ma quando iniziamo a fare storia, cioè a fare scelte, a conoscere e farci conoscere e facendoci conoscere a conoscerci ancora di più, e così via, ad incontrare amici e nemici e persone indifferenti, e a fare insomma tutto ciò che è vita, a un certo punto succede che in qualche modo noi possiamo diventare un ulteriore fattore di cambiamento per noi stessi. E' vero però che è cosa tutt'altro che lineare o semplice e non è un processo privo d’incidenti. Ci sono persone ad esempio che non avrebbero mai saputo pungere con tale incredibile letalità, o pungere sempre e comunque, se da bambini non avessero imparato che le mani degli altri sono fatte solo per ferire. Saranno forse da adulti scorpioni che finiranno col difendersi da ogni mano e quindi anche da quelle che potrebbero dar loro delle carezze (e che magari a un certo punto rinunciano a trovare un modo di accarezzare senza farsi pungere): il pungiglione che doveva difenderli finisce col ferirli, col condannarli ad annegare o a restare soli, li condanna ad aver ragione nella loro convinzione che le persone sanno solo esserci per ferirli oppure non esserci affatto abbandonandoli. Ma gli scorpioni, che sia a causa della natura o per colpa dell'ambiente, sono davvero destinati ad essere scorpioni? Ci sono scorpioni invece che pungono per paura, perché pungere la rana (che qualcuno chiamerebbe naturalmente stupida e qualcun altro naturalmente generosa) gli permette di sostenere una personale finzione facendogli dimenticare che per un rapace lui è un insignificante boccone (perché magari per tutta una vita lo hanno fatto sentire un insetto). Tutto l'odio che troviamo su internet può fare davvero del male, e il fatto che sia anonimo e condiviso da altri haters non rende meno responsabili del male che fa, ma se non fosse per questo la cosa che sarebbe evidente è come molti (anche se non tutti) di questi haters siano loro stessi 'addolorati dalla vita' e però non possono permettersi di riconoscerlo: per alcuni è di gran lunga preferibile odiare che, ad esempio, essere tristi. La rabbia è spesso una grande mistificatrice di emozioni: ad esempio attaccare le rane può essere solo una distrazione per non sentirsi privi di controllo sulla propria vita o ancora insicuri e piccoli o spaventati o invidiosi o feriti o violati. Alcuni non si sentiranno mai responsabili della propria rabbia e delle sue conseguenze: si diranno che sono le vittime le responsabili del male che si sono “meritate”, della conseguenze rabbia che “attirano” a sé. Nella savana si può provare a fuggire da un leone ma nelle città e nelle proprie menti come si fugge da ciò che ci spaventa? Rendere gli altri vittime a volte ci salva dal non sentirci vittime noi stesse, ma è un'inconsapevole bugia che condanna infine lo scorpione quanto la rana. Talune rane poi, a differenza di quella della favola, in realtà hanno anche gli strumenti per proteggersi dagli scorpioni. Uno scorpione che invece non voglia vedere non può difendersi da se stesso e prima poi in qualche modo dovrà fare i conti con le conseguenze di quella modalità di non riconoscere parti di sé, insomma con la propria stessa coda pungente. Ci sono scorpioni che pungono rane per una vita intera per convincersi di essere coraggiosi: ma solo alcuni di loro decidono di chiedersi il vero perché della propria rabbia invece d’imputarla agli altri, e in quel momento sono coraggiosi per la prima e non ultima volta nella loro vita. Il punto però non è quello di decidere chi sia meglio, se lo scorpione o la rana. Quello che distingue la rana dallo scorpione non è neppure che una è preda e l'altro è predatore, dato che come visto i comportamenti possono nascondere altre verità (una rana ad esempio potrebbe essere rana per paura di scoprirsi scorpione). In un certo senso non c'è nessuna aprioristica differenza tra loro: entrambi possono essere vittime di loro stessi, o di loro stessi artefici. Prima d’imbarcarsi nel viaggio e attraversare l'acqua avrebbero però dovuto specchiarsi in essa, guardarsi, capirsi meglio: un viaggio inconsapevole è più spesso nocivo che avventuroso ed infatti la rana ha riconosciuto la logica delle parole dello scorpione ma non poteva conoscerne la 'logica' emotiva perché non ne conosceva, non tanto la natura, ma la storia, non conosceva i veri bisogni dello scorpione ma anche i veri motivi del proprio essere rana. E lo scorpione avrebbe dovuto (ma non poteva) conoscersi sufficientemente da sapere che stava condannando sé e l'altra; che non era ancora pronto ad incontrare qualcuno così altro da sé perché lui stesso non sapeva bene chi fosse: dire alla fine che il pungere era la propria natura era più che altro auto-giustificatorio e consolatorio. Se poi si vuole prendere per vera la morale della favola allora bisognerebbe riflettere sul fatto che sì, lo scorpione potrebbe testimoniare che non si può cambiare la propria natura, ma la rana cosa testimonia? La rana per natura avrebbe dovuto resistere ad ogni argomentazione perché la natura invariabilmente le avrebbe detto di tenersi lontana se non si scappare. Delle due creature quella che sembra aprirsi coraggiosamente alle incognite e alle possibili ricchezze dell’incontro con l’altro è la rana, che all’inscindibile connubio tra rischio e opportunità vuole aprirsi, sceglie di aprirsi, a dimostrazione che ogni cosa è tutt’altro che già scritta. La favola non sembra raccontare tanto l’impossibilità del cambiamento, ma la sua difficoltà. Sembra mettere la difficoltà al cambiamento dialetticamente in relazione con l’esigenza di proiettarsi al di là di sé stessi per poter raggiungere l’altro e con l’altro anche noi; fa riflettere sui rischi e le possibilità, la necessità di proteggersi ma anche quella di crescere, le paure e il fascino, racchiusi da queste due ambi-tendenze. Quando incontro un paziente per la prima volta mi chiedo quante strade abbiano percorso i suoi pensieri, quanti erti sentieri le sue emozioni, quanti fatica paura e coraggio ci sia dietro una scelta che mette tutto in discussione, che significa camminare su un sentiero nuovo e sconosciuto. Non è facile e non si può rimproverargli di non averlo fatto prima, perché prima non avrebbe probabilmente potuto, ma piuttosto complimentarsi di essere riuscito a farlo ora, complimentarsi per il prendersi il rischio di uscire dal sentiero battuto invece di continuare a calpestare le proprie orme in circolo, o invece di cedere alla più facile tentazione di fare il pendolare tra posti in cui trovare una nuova vita o tra ‘filosofie’ che portano risposte dall’alto buone per tutti (e quindi forse per nessuno) invece di permettere che emergano da dentro sé stessi. Se lo scorpione rappresenta la paura di cambiare, la rana potrebbe simboleggiare l’incauta fuga in avanti. Quello che si potrebbe rimproverare alla rana è infatti non aver nuotato dentro di sé prima di partire all’avventura con un altro anonimo: il problema infatti non era che l’altro fosse diverso da lei, ma che era sconosciuto fino ad essere appunto anonimo; il problema era che lei stessa non si conosceva abbastanza da capire perché avesse bisogno di partire per un viaggio con uno sconosciuto prima d’incontrarlo per conoscerlo. Prima di partire per un viaggio di vita, anche geografico, forse sarebbe infatti importante intraprenderne uno dentro di noi, alla nostra scoperta, perché il luogo verso cui viaggiare possa essere una meta che scegliamo in virtù dei nostri bisogni e desideri e non una fuga nella speranza che qualcosa o qualcuno ci salvi in nostra vece, speranza di non essere catturati da qualcosa che non può mai essere davvero lasciato indietro se prima non è conosciuto e incontrato: quando non si dice addio non si parte mai davvero. I viaggi permettono di conoscere meglio i nostri compagni di viaggio e un buon compagno di viaggio permette di conoscere meglio persino noi stessi, ma all'inizio per non accompagnarsi al compagno sbagliato è meglio capire qualcosina di sé perché questo ci permetterà di capire almeno un po’ di cose di quel potenziale compagno e se quel viaggio insieme, pur con tutte le imprescindibili incognite, potrebbe rivelarsi più facilmente un inutile rischio oppure un'opportunità. Ci sono insomma scorpioni di ogni tipo e rane di ogni tipo, perché ognuna di esse ha una diversa storia, e sarebbe un errore ridurla a una natura o a un ambiente comuni a tutti gli scorpioni e a tutte le rane, o peggio ad una comune storia che invece per definizione è personale e irripetibile. Nessuna rana o scorpione ha un destino immutabile scritto dalla natura o dall'ambiente che è toccato loro in sorte, seppure entrambe le cose siano variabili importantissime di cui bisogna tenere sempre conto. Non è però solo questione di biologia, di società e cultura, ma anche di relazioni e della possibilità e capacità di farsi in parte protagonista della propria storia. Le relazioni ci cambiano ma, soprattutto da un certo punto in poi, anche noi possiamo avere un'influenza su quelle relazioni che hanno influenza su di noi, in un complicato gioco di riverberi. Anzi una relazione riuscita cambia entrambe le persone. Non è mera questione d'influenzare l'altro. L'acqua e l'idrogeno incontrandosi scoprono della loro potenzialità di essere anche acqua senza smettere di essere idrogeno e ossigeno, e l'acqua a sua volta potrebbe diventare altre cose ancora se avesse consapevolezza di cosa significhi potenzialmente essere acqua e le sue implicazioni. Relazione è un filo, e i fili hanno due estremità. Ed ogni filo è intrecciato ad altri fili, altre relazioni: un ordito che, soprattutto da piccoli, ha un ruolo importantissimo nel definire chi siamo e chi non possiamo essere, ma è un ordito in cui abbiamo ancora e sempre ampi margini di libertà, in cui noi pure scriviamo la nostra storia, un ordito che dal nostro scrivere può essere in parte ridisegnato o allargato e mutato per diventare forse non qualsiasi cosa ma sicuramente altro rispetto a quello che sembrava destinato a farci essere malgrado noi. C'è chi si sente come un criceto destinato a girare la ruota di una quotidianità sempre identica che infine appare una gabbia, stando in mezzo a persone che pensando di sapere tutto di lui o lei e che quindi finiscono con l'essere percepite come ulteriori sbarre. C'è chi cerca di sfuggire a questo senso d'ineluttabilità facendo le valigie e cambiando città o nazione. Ma quell'intreccio (di biologia e cultura e relazioni e noi stessi) che ha contribuito a renderli chi loro sono, è insito non solo al loro ambiente, alla loro città e alla loro nazione, ma ormai anche alla loro mente, perché la loro mente fa parte di quell'intreccio e non ne è solo il prigioniero. Ad esempio spesso nel nuovo posto ci si porterà le vecchie convinzioni su se stessi, e dopo non molto tutto rischierà di apparire cambiato eppure identico. Altre volte si potrebbe scoprire che andare in un posto nuovo ha davvero cambiato il proprio destino. Ha ad esempio un effetto benefico per la prima volta dopo anni sentire di non essere dagli altri definiti a priori come scorpioni o rane, e ciò potrebbe far certamente sentire abbastanza liberi da autorizzarsi a mettere in gioco anche altre parti di sé nascoste o potenziali. Ma in ogni caso ogni cambiamento è tale se riusciamo a trovare con pazienza e fatica un modo per mettere anche noi stessi tra le variabili che influenzano la nostra vita, così cominciando o ricominciando a scrivere la nostra storia invece di essere solo il personaggio di un copione già apparentemente scritto. E' un'operazione però non semplice che implica un faticoso percorso di conoscenza e la nuova consapevolezza di dover affrontare vecchie paure senza la tentazione di utilizzare altrettanto vecchi schemi che seppure ci fanno soffrire sono il solo modo che a lungo abbiamo conosciuto per difenderci e per affrontare la vita. Un percorso del genere non lo si fa mai da soli, come non è in solitudine che si è diventati quello scorpione e quella rana che hanno finito col nascondere agli altri (e talvolta persino a sé stessi) tutto il resto che sono. La natura segna i limiti del nostro mondo personale ma tutto ciò che possiamo costruirci in quei limiti è da definire (seppure la cultura contribuisca a indirizzare il nostro sguardo e alcune delle nostre scelte). In tutto ciò, come detto prima, noi stessi e i nostri legami (legami che non imprigionino ma che piuttosto ci assicurino a qualcosa di certo mentre affrontiamo una scalata difficile) possono cambiare le cose. E poi a un certo della 'favola' (si fa per dire) scientifica si scopre che natura e cultura non sono poi così agli antipodi. Recenti scoperte delle neuroscienze ci dicono che certe esperienze ci cambiano non solo dal punto di vista psicologico ma che questo cambiamento ha un corrispettivo nel cervello. Le relazioni, tra le altre cose, cambiano impercettibilmente ma in modo significativo le connessioni neuronali. Potremmo giocare a dire che incontrare qualcuno cambia la nostra mente e quindi il nostro cervello e che noi cambiamo la mente e il cervello dell'altro che c'incontra. Se così non fosse certi incontri della nostra vita, in rare ma bellissime occasioni, non attiverebbero o catalizzerebbero certi cambiamenti importantissimi, che sono davvero qualcosa di simile allo scoprire di poter essere acqua invece che gas (dell'acqua si dice poi che abbia memoria). Se così non fosse la psicoterapia, che è innanzitutto un incontro (seppure di un tipo particolare) con un' altra persona, non avrebbe una capacità mutativa che necessita invece di qualcosa di più di un semplice incontrare un differente o più esperto punto di vista. Essere una rana o uno scorpione è solo una parte della storia, non è la storia. Prima di rassegnarsi al fatto di essere una rana o uno scorpione non vorreste sapere se lo siete davvero e cos'altro siete stati e potreste essere?

  • La vera storia di Peter Pan

    E’ assai probabile che conosciate la storia di Peter Pan, il bambino che non voleva crescere, a capo dei Bambini Sperduti che avevano preferito abbandonare il loro mondo e le proprie famiglie per seguire Peter sull’Isola che non c’è; mentore dei fratellini Darling portati sull’isola ad affrontare insieme a Peter i temibili pirati; amico della gelosa fata Trilli; Peter Pan l’inconsapevole alleato del coccodrillo che ha in pancia un orologio che ricorda al comune nemico, il pirata Uncino, che il suo tempo prima o poi giungerà a compimento. E’ anche probabile che abbiate sentito parlare della Sindrome di Peter Pan con cui ci si riferisce a quella condizione per la quale persone adulte sembrano rimanere fondamentalmente immature ed egocentriche, incapaci di prendersi delle responsabilità e di diventare davvero indipendenti. Il nome Peter Pan è diventato sinonimo da un lato di spensieratezza che vuole resiste alle costrizioni di un’adultità vista come sostanziale privazione di libertà; dall’altro d’incapacità di maturare e in definitiva diventare una persona compiuta. Eppure mi sembra che la storia di Peter Pan racconti ben altro e che forse, in parte, possa illuminare diversamente anche la storia di chi viene detto affetto dalla cosiddetta sindrome di Peter Pan. Davvero la storia di Peter Pan è semplicemente una narrazione sul voler restare in una spensierata fanciullezza? Eppure basterebbe preliminarmente pensare che in questa storia ci sono rapimenti, tradimenti, gelosia, invidia, duelli, ragazzini che rischiano la vita. Bambini lasciati soli a sfidare i pericoli della spensierata isola che non c’è, spensierata nel senso che l’azione sostituisce il pensiero: non ci si può fermare a pensare, non solo perché tutto accade molto velocemente ma perché a quel punto ci si dovrebbe pensare soli. I bambini che abitano l’Isola che non c’è non appaiono liberi nella spensieratezza di un’infanzia che si vuole protrarre indefinitamente. Mi sembrano piuttosto prigionieri della loro presunta libertà ovvero dell’essere stati lasciati soli. Non sappiamo molto delle storie dei Bambini Sperduti che hanno scelto di vivere una vita sostanzialmente da orfani, ma penso che sia significativo che si chiamino “Bambini Sperduti” invece che ad esempio “Bambini liberi”. Pensiamo poi agli adulti presenti nella storia. I genitori dei fratellini Darling, che hanno dimenticato le gioie e le fatiche di essere bambini. E’ Wendy che sembra occuparsi dei bisogni emotivi dei fratellini più dei genitori che piuttosto chiedono anzitempo ai loro figli, soprattutto a Wendy, di diventare ancor più precocemente adulti. I genitori di Wendy hanno dimenticato, o non hanno potuto imparare, che il percorso verso l’essere grandi è fatto di tappe tutte ugualmente fondamentali e imprescindibili in cui la relazione con i genitori è un fattore d’importanza vitale; hanno insomma dimenticato che l’essere adulti non può essere una mera scelta, men che mai una scelta dettata da altri o peggio il risultato di una traumatica irrilevanza della specificità del proprio essere bambini che stanno crescendo. Pensiamo ai genitori dei Bambini Sperduti. Non sappiamo nulla di loro, sono dei fantasmi, rilucono per la loro assenza. Forse erano già dei fantasmi evanescenti nelle loro funzioni genitoriali. Quale bambino preferirebbe vivere senza i propri genitori? I bambini perdonano praticamente quasi tutto ai propri genitori pur di non perdere un legame che è vitale. Accettare di essere dei bambini sperduti significa una rassegnazione oltre ogni speranza, la certificazione di essere già da lungo tempo dei bambini sperduti. Gli altri adulti della storia sono Capitan Uncino e i suoi pirati, che appunto sono pirati e non almeno corsari, un’idea di adultità soltanto egoistica e arrembante, per cui i bambini sono ostacoli ai propri scopi o al più strumenti per il loro raggiungimento. Anch’essi hanno dimenticato cosa significhi essere bambini e hanno annacquato nel rum ogni istinto di accudimento, altrimenti accoglierebbero quei bambini sperduti e se ne prenderebbero cura invece che fargli la guerra invidiosi di ciò che loro stessi hanno s-perduto nel diventare adulti, invidia che acceca la loro empatia e gli impedisce di vedere ciò di cui quei potenziali figli avrebbero bisogno. Non sappiamo nulla neppure della storia di questi pirati ma forse anch’essi in passato erano stati bambini sperduti. Di Capitan Uncino si dice che in passato fosse stato il secondo del pirata Barbarossa ma io ho un’altra teoria al riguardo. Nonostante la pervicace opposizione a crescere di Peter e la sua banda, credo che l’orologio che ticchetta nella pancia del coccodrillo scandisca l’inesorabilità di un’infanzia che se troppo protratta potrà anche non passare per l’adultità ma sicuramente è destinata a non restare infanzia: come un frutto colto troppo precocemente che andrà a male senza mai diventare maturo. Capitan Uncino, piuttosto che fare il pirata e navigare per mare, è come vincolato all’Isola che non c’è, pieno di rabbia verso un Peter Pan che gli somiglia più di quanto possa immaginare. Credo insomma che Peter Pan sia destinato a diventare Capitan Pan e i Bambini Sperduti siano la sua futura ciurma di pirati; e che tanto tempo prima Capitan Uncino fosse Uncino Pan, il predecessore di Peter, e i suoi pirati altrettanti piccoli bambini sperduti. Insomma la storia si ripete. Insomma la storia circolarmente si ripete come un coccodrillo che si morda la coda mentre ha in pancia un orologio che non smette di ticchettare. Peter Pan, quando i piccoli Darling glielo propongono, apparentemente non vuole essere adottato. Ma chi ha subito un grave trauma abbandonico o chi non ha mai fatto esperienza di una relazione di accudimento, è spesso costretto ad un’autonomia forzata, un’autonomia per così dire quasi letterale visto che etimologicamente autonomia significa “vivere con le proprie leggi”. Vivere con le proprie leggi è l’unico modo di sopravvivere quando non si è stati protetti dalla legge del padre e della madre, quando prima di essere autonomi non ci si è potuti sentire protetti e poi progressivamente indipendenti ma mai soli. “Autonomia” ricorda poi un’altra parola “autotomia”, che è quello che fanno le lucertole quando rinunciando alla coda sacrificano una parte di sé pur di sopravvivere. Come dimenticare poi che Pan fosse nella mitologia greca una divinità legata alla selvaggia e libera natura ma che fosse anche stato abbandonato dalla madre. Pan, dio silvano dal famigerato urlo spaventante (ma anche spaventato) da cui non a caso deriva la parola “panico”. Peter Pan è un bambino libero e selvaggio ma prima di tutto è un bambino abbandonato e segretamente spaventato che s’infila nelle situazioni più pericolose per convincersi di non aver paura o per dimenticare la cosa che più teme: di essere solo. I bambini hanno paura di essere abbandonati dai propri genitori molto più di quanto possano temere coccodrilli e pirati. Se poi sono stati effettivamente abbandonati, letteralmente oppure emotivamente, spesso la paura di restare nuovamente soli, se non li spinge a forme di dipendenza estrema, li spinge verso forme di estrema ma insicura autonomia. I ragazzi di oggi sembrano più vicini dei loro genitori ad un’idea di adolescenza che vuole restare libera e che non vuole crescere. Ma sembrano solo una diversa declinazione e gradazione dei Bambini Sperduti: non avendo quindi avuto esperienza del limite e della possibilità d’introiettare la legge genitoriale si ritrovano, più che indipendenti, costretti precocemente ad inventarsi una propria legge che non sanno come costruire, inconsapevolmente spaventati da una precoce assenza di limiti che nulla ha a che vedere con la libertà e che semmai li rende prigionieri del poter fare ciò che vogliono prima ancora di sapere chi possono e vogliono essere. Anche questa può essere una, solo più mascherata e meno estrema, forma di abbandono. I genitori dovrebbero essere vicini ai figli, non somigliargli. Vicinanza e somiglianza sono tutt’altro che equivalenti. Non c’è contraddizione né paradosso: per diventare indipendenti i figli devono diventare dissimili dai propri genitori; e i genitori devono essere stati molto vicini ai figli per consentire ai propri figli di essere un giorno molto lontani da loro senza per questo sentirsi soli. L’epilogo della storia racconta che Peter torna all’Isola che non c’è e che i Bambini Sperduti decidono di non farsi adottare. La nota di speranza giunge dal versante della storia apparentemente più normale ma per nulla banale: i piccoli Darling riconoscono che hanno ancora bisogno di un sano accudimento e di dover crescere con i tempi necessari; cosa più importante, sembrano capirlo anche i loro genitori che, forse non a caso, giungono infine a ricordare la propria infanzia, le avventure e i pericoli di quando erano essi stessi dei bambini. L’epilogo sembra insomma mostrare due delle possibili evoluzioni della storia di ogni infanzia. Peter Pan non è tanto la storia di un eterno bambino, ma di un bambino sperduto precocemente lasciato a cavarsela da solo, senza sicurezze e senza limiti. Peter Pan è un infelice e spaventato anacronismo. (Letture consigliate: Sàndor Ferenczi, "Diario clinico")

  • L’insostenibile leggerezza dell’ essere Charlie Brown

    In una striscia del fumetto Peanuts Charlie Brown spiega a Patty la giusta postura che deve tenere chi voglia essere depresso, quasi volesse rivendicare una sua filosofia di vita, un tentativo adattivo di stare in un mondo che non è fatto a misura dei bambini (ma forse neanche degli adulti): “La cosa peggiore che puoi fare è stare dritto e guardare verso l’alto, perché cominci a sentirti meglio”. In un’altra striscia spiega invece così a Lucy la sua paura di essere felice: “Perché ogni volta che si diventa troppo felici, accade sempre qualcosa di brutto”. Insomma stare piegati, spera Charlie Brown, permette di schivare i colpi della vita. Charlie Brown è uno dei personaggi principali dei Peanuts (Noccioline). E’ goffo, con una non altissima autostima, è pieno di ansie e insicurezze ma è anche pieno di speranze ed è un perdente testardo (insiste ad allenare una squadra di baseball che ha vinto due partite sulle quasi mille giocate). Non è preso sul serio neppure dal suo cane Linus, di cui deve subire il sarcasmo. Sembrerebbe essere un perdente di successo: tutti o quasi ne ignorano suggerimenti e iniziative ma tutti in vario modo ruotano attorno a lui. Più enzima socializzante che leader Charlie Brown è l’inconsapevole e indispensabile fulcro di una compagnia eterogenea di bambini un po’ lasciati a loro stessi dai genitori, tutti un po’ troppo cresciuti e che con le loro incongrue saggezze e idiosincrasie incarnano un ironico rispecchiamento e un’ironica critica al mondo degli adulti. Potremmo intitolare questo ritratto “L’insostenibile leggerezza dell’ essere Charlie Brown che pratica l’arte quasi-zen del non-vincere” oppure "La posizione depressiva secondo Charlie". Se invece da allenatore vincesse tutte le partire magari sarebbe davvero cool e tutti lo seguirebbero avendo poco o nulla da dire, e magari da grande Charlie Brown diventerebbe l’ennesimo maestro di vita che non c’insegna nulla perché parla di se stesso senza davvero parlare con noi e anche di noi. Invece dove c’è lui c’è un pensatoio in posti anche impensabili e per somiglianza od opposizione le sue vicende ci fanno riflettere anche su di noi. Nonostante studi per diventare un depresso ed abbia una paura quasi fobica della felicità, la sua sembra quasi una filosofia di vita prima che una sofferenza psicologica. E’ una tensione costante verso la in-felicità, una sorta d’infelicità mimetica per restare in prossimità della felicità. Forse inconsciamente Charlie Brown pensa che se fosse semplicemente felice tutto diverrebbe immobile e le cose immobili invecchiano precocemente, si dissolvono senza neppure morire, condannate all’inconsistenza. Ma finché teme di essere felice lui può continuare a maneggiare gli ingredienti per esserlo (amici, sogni, passioni, amore, eccetera) senza mai risolversi ad esserlo. Non che davvero non lo sia felice: la sua sembra più una felicità insatura, una felicità che non vuole farsi catturare in una polaroid (che ruberebbe l’anima dell’essere felici), una felicità perennemente processuale invece che statica. Il suo timore di essere felice è il modo che Charlie ha trovato per cercare di esserlo senza restare immobilizzato per il terrore o la disperazione dell’impossibilità di esserlo. Se fosse davvero depresso Charlie Brown non combatterebbe imperterrito per cercare di vincere una partita di baseball né si struggerebbe per la bambina dai capelli rossi di cui è segretamente innamorato. Sembra più che altro che quando Charlie dice che ha paura di essere felice voglia in realtà dire che possedere la felicità sia contraria all’intrinseca natura di questa: la felicità semplicemente posseduta è decadente, la felicità (che salva la felicità) sta nel cercarla, costruirla oltre che ottenerla, cercarla ancora, sentire che si è spostata un passo oltre e di nuovo tendersi verso di essa, in una dinamica parzialmente sovrapponibile a quella del desiderio. Charlie è un po’ un poeta post-romantico, un po’ filosofo. Ma Charlie Brown è anche e pur sempre un bambino: ha le sue piccole ansiolitiche superstizioni (se ti senti felice rischi di perdere la felicità), i suoi esorcismi (la postura da depresso è un parafulmine dagli strali del destino affinché non lo colpisca con una vera depressione), i suoi rituali che gli permettono di addormentarsi la notte nonostante il suo costante cogitare sulla vita e di essere riposato per poter un altro giorno ancora così da poter desiderare la bambina dai capelli rossi. Charlie sa che non tutto è nelle nostre mani per ottenere la felicità e cerca di gestire, un po’ nevroticamente e un po’ creativamente, l’ansia di non avere controllo su tutto ciò che potrebbe renderci o meno felici. Ma sa anche che sentirsi in balia del destino ci condannerebbe sicuramente a non raggiungere la felicità. Charlie Brown è come molti di noi un nevrotico, pieno di conflitti e di dubbi, ma non solo le sue difese e i suoi sintomi gli permettono un certo equilibrio non troppo rigido con se stesso e il suo mondo, ma di questi ha fatto una sorta di filosofia di vita, forse quasi-zen o forse anti-zen, in cui la felicità sembra non essere desiderata ma tutto ciò che la consente lo è. L’apparente sindrome ansioso depressiva di Charlie è un mondo messo in tensione e dinamizzato dal desiderio. E anche questa è una piccola verità che Charlie Brown riflette delle vite di ognuno di noi: desiderio e creatività sono tra gli ingredienti che ci salvano dalla vera follia e che a volte addirittura ci aiutano a raggiungere e riraggiungere la felicità, che ci salvano dalla rassegnazione e ci permettono speranza quando fattori oggettivi c’impediscono di essere felici. Charlie Brown è un po’ filosofo, un po’ nevrotico, un po’ bambino e un po’ adulto: insomma è un po’ come ognuno di noi e per questo, decennio dopo decennio, continuiamo a leggere le sue strisce.

  • Reggere insieme il cielo: dipendenza o cooperazione nel rapporto di coppia

    Forse non abbiamo bisogno di trovare un/a partner che sia l’altra metà del mondo, che ci completi, ma piuttosto qualcuno/a insieme a cui ci sarà possibile reggere il cielo. Per molti infatti la ricerca dell’amore è sinonimo di ricerca della metà di sé. Invece l’incontro con un partner dovrebbe significare qualcosa di simile all’incontro di una galassia (di vissuti e personalità) che ne incontra una seconda, insieme dando vita a qualcosa di terzo: una galassia che prima non esisteva e che senza le altre due non avrebbe mai avuto vita. Essere coppia dovrebbe essere un processo generativo e non sommativo: nulla dovrebbe togliere a chi siamo, ma non dovrebbe neppure essere la semplice somma di due persone. E’ un po’ come in chimica in cui le proprietà emergenti non sono semplicemente riconducibili a quelle dei loro componenti originali: nessuno potrebbe dissetarsi, invece che con dell’acqua, con dell’idrogeno seguito da un po’ di ossigeno. Forse l’espressione “esserci chimica”, riferita all’incontro riuscito tra due persone è davvero significativa. E’ persino pericoloso, nel sentire in se stessi qualcosa d’incompleto, credere che questa incompletezza possa essere saturata e suturata dall’incontro con un altro. Perché il rischio è di dipendere dall’altro, diventare il suo satellite piuttosto che l’altra metà del suo mondo, ad esempio perché la dipendenza dell’uno incontra i bisogni narcisistici dell’altro. Oppure la dipendenza dell’uno incontra la dipendenza anche dell’altro venendosi così a creare un rapporto asfittico fatto di un levare più che di un crescere, di un reciproco limitarsi, una palude in cui tutto è tranquillo solo perché stagnante. Coppie del genere rischiano di confondere l’inconscia collusione d’intenti per amore; e nel lungo periodo sono spesso destinate a situazioni, anche personali, problematiche. Quando ad esempio uno dei due partner, per qualche ragione, sente il bisogno di essere (e diventa) maggiormente consapevole di sé allora frequentemente la coppia va in crisi, oppure non solo la coppia vacilla ma l’altro partner entra in una crisi personale. Non ci dovrebbe essere bisogno di un altro per sentirsi completi: se la nostra storia di vita ci ha portati a sentire che qualcosa manca in noi allora la cosa migliore da fare non è cercarla in altri che possano completarci, ma cercarla in noi stessi, cercare noi stessi in noi, diventare consapevoli di ciò che di noi non abbiamo potuto finora vedere, integrare in noi ciò che finora abbiamo dovuto credere non ci appartenesse. Platone narra in un mito che all’inizio dei tempi gli essere umani erano doppi: braccia, gambe, teste, genitali, tutto doppio in una sola persona. Finché Zeus, per punirli della loro arroganza, non divise ogni essere umano in due. Zeus però era in un certo senso più umano degli umani che puniva, e di certo non aveva raffinate competenze psicologiche: risolveva tutto a suon di fulmini o di mistificazioni e travestimenti. Vedete in questo mito una metafora sulla parte perduta della propria anima invece che sulla perduta anima gemella, su quanto di noi è stato sepolto in noi (per paura, conflitto, per un mandato ad essere chi avremmo dovuto invece di chi davvero siamo, eccetera). Se vi sentite incompleti cercate dentro di voi, magari con l’aiuto esperto di un compagno di viaggio, ben prima della ricerca di un compagno di vita. Quel compagno di vita che comunque non sarà mai la vostra metà, visto che voi siete già un intero, ma insieme al quale sarete una nuova costellazione. All’immagine di Platone ne preferisco un’altra. Un detto cinese racconta che la donna regge l’altra metà del cielo. Si potrebbe dire che il detto cinese ha anche un non detto riguardo il fatto che metà del cielo non è il cielo ma piuttosto un baratro e che quindi il Tutto non è semplicemente il riflesso di una metà. Ma il proverbio secondo me potrebbe affermare qualcosa di più sofisticato: infatti non dice che la donna è l’altra metà del cielo, ma che regge l’altra metà del cielo. L’uomo e la donna rimangono loro stessi, non hanno bisogno dell’altro per essere completi, ma il frutto della loro unione e cooperazione permette il cielo e le sue costellazioni, qualcosa cioè che senza il loro essere insieme non esisterebbe. (Il proverbio cinese presumibilmente non è stato pensato specificamente per descrivere le relazioni di coppia quindi nell’usarlo a tale scopo mi prendo la libertà di declinarlo per estenderlo anche alle coppie non eterosessuali.) #coppia #crescere #cielo #donna #uomo #dipendenza #cooperazione

  • Tutti i sentieri di Cappuccetto Rosso: la possibile contro-favola dell’essere donna

    Qual’è il movente del mandante che sta dietro il tentato assassinio e il riuscito, almeno inizialmente, atto antropofago del Lupo ai danni della nonnina? Perché insomma Cappuccetto Rosso voleva morta la sua nonnina e ha permesso che il Lupo la uccidesse? Quasi tutti conosciamo la favola di Cappuccetto Rosso e sappiamo che non è una favola per stomaci deboli, non è una favola per adulti: ci vuole lo stomaco d’acciaio di un bambino per poterla digerire. Ma di cosa davvero parla Cappuccetto Rosso? Le favole non si limitano a dare un insegnamento morale ma esprimono qualcosa che racconta della natura conflittuale, ad esempio desiderante e spaventata, dell’essere umano. Non si spiegherebbe altrimenti perché generazioni di genitori raccontino storie così francamente inquietanti quali quelle che generalmente caratterizzano le favole. Secondo una certa tradizione interpretativa questa favola in particolare esprimerebbe i pericoli derivati dall’accedere all’adolescenza, cioè ad una maturità sessuale ma senza una corrispettiva piena maturità psicologica (c’è chi vede nel rosso del cappuccio un riferimento alle prime mestruazioni). Ovvero metterebbe in guardia dai pericoli derivati dal farsi guidare dal solo principio di piacere. Tali pericoli sono simbolicamente espressi nelle nefaste conseguenze scaturite dall’aver deviato dal sentiero consigliato dalla madre a Cappuccetto Rosso: il Lupo inghiotte la Nonna e poi la stessa Cappuccetto Rosso. La piccola infatti nel lasciarsi tentare dalle seduttive suggestioni del Lupo, che la convince a ritardare l’arrivo a casa della nonna per addentrarsi nel bosco, tradisce anche un’ambivalenza nei confronti dell’animale: ne è insieme attratta e spaventata. La favola vorrebbe mettere in guardia suggerendo che seguire senza compromesso la ricerca del proprio fiorente desiderio esporrebbe al possibile destino di essere predata da un maschile famelico. Il maschile nella favola viene scisso in una incarnazione cattiva ed una buona ovvero nel lupo e nel cacciatore, nel mostro e in una versione ruvida e barbuta del principe azzurro. Il cacciatore è il maschile protettivo e paterno ma anche, insieme alla madre, il rappresentante della morale sociale. L’ambivalenza riguarda però anche il materno: la mamma e la nonnina sono amate, eppure basta un lupo a far cedere Cappuccetto Rosso alla seduzione di deviare dal sentiero materno per godere delle bellezze del bosco. Di più: Cappuccetto Rosso è al di là dell’ingenuità quando sembra far di tutto perché il Lupo arrivi alla nonnina, quasi che per diventare donna dovesse uccidere i modelli di femminilità che hanno fino a quel momento guidato la sua evoluzione di bambina. Cappuccetto Rosso sembra essere cieca. Anzi i suoi sensi tutti sono apparentemente offuscati di fronte al Lupo che, come consapevole dell’ambiguità nelle intenzioni di Cappuccetto, sembra persino volerne solleticare/allarmare i sensi, un senso alla volta: “per guardarti meglio”, “per ascoltarti meglio”, eccetera. Ma Cappuccetto pare proprio voler fare la tonta persino di fronte all’improbabile travestimento del Lupo da vecchietta che oltretutto, ma forse non a caso, aspetta e invita Cappuccetto Rosso nel letto. La nonna e la nipote, per tutta la storia indifese e ingenue fino alla stupidità, sul finire della favola diventano improvvisamente astute riempiendo lo stomaco del Lupo di pietre e quindi finiscono con l’essere delle ammazza-lupi. Non a caso un’altra linea interpretativa vede in questa favola l’espressione del conflitto tra patriarcato e matriarcato, tra il maschile e il femminile, della reciproca invidia, della vittoria maschile da cui scaturisce il femminile desiderio di vendetta che nella favola condanna il maschio, ovvero il lupo, ad essere schernito, costretto ad una gravidanza di pietre con cui le due donne gli riempiono la pancia per sottolineare la sua impossibilità a generare. Il sentiero che nella favola percorre Cappuccetto Rosso unisce sua madre alla madre di quest’ultima, una generazione di donna alla successiva e, virtualmente, se Cappuccetto non deviasse mai dal tracciato, a quella dopo ancora. Non ci sono incroci né bivi possibili. Sa tanto di femminilità predestinata. Quello che però la favola non racconta è che per diventare donna ogni Cappuccetto Rosso deve a un certo punto deviare da quella via nonostante i rischi nel tracciare un sentiero del tutto nuovo, una strada che conduca alla donna che si sarà e al proprio originale modo di appropriarsi della propria femminilità. Ma di tutto ciò nella favola di Cappuccetto Rosso c’è scarsa traccia, se non nella sua ambivalenza verso la nonna/madre e nella ambitendenza sia per il sentiero che per il bosco. E’ però un significato che si può ricavare quasi solo per sottrazione. La sostanza della favola è soprattutto che l’incarnazione del braccio “conformisticamente armato” della società, o del proprio Superio (i sensi di colpa e la parte anche normativa dell’identificarsi con la madre), braccio armato rozzamente interpretato dal cacciatore, non permette che la nonnina soccomba. Anzi per un certo lasso di tempo le due donne condividono lo stesso grembo, patiscono lo stesso travaglio. La sostanza è che alla fine Cappuccetto Rosso e la Nonna si alleano, e nell’una sembra di poter già cogliere il riflesso futuro dell’altra. Oppure... E’ però anche vero che l’animale aveva inghiottito una nonna e una nipote apparentemente inermi e ingenue ma ha finito col partorire una sorellanza di astute carnefici di bestie, quasi tutt'altro tipo di passaggio di testimone generazionale. In un certo senso Cappuccetto Rosso forse ha davvero ucciso la sua nonna/mamma. A partire da ciò Cappuccetto potrebbe aver acquisito il potere di diventare, non semplicemente la replica dell’oggetto materno, ma se stessa e quindi anche una donna a fianco di un’altra donna? Forse alla fine di questa indagine si potrebbe dire che abbiamo il colpevole ma non c’è delitto. Sappiamo che le favole si trasformano col passare del tempo. Oltre a ciò aggiungerei che non conosciamo le favole oltre la favole, oltre il perbenista “E vissero tutti felici e contenti” non sappiamo cosa sia davvero accaduto o cosa davvero potrebbe accadere. “Cappuccetto Rosso” è soprattutto una storia di pressione conformistica, ma un giorno finirà col trasformarsi in una metafora anche di emancipazione o, cosa ben più difficile, addirittura d’individuazione? Tutto sommato la nonnina ha preferito vivere da sola nel bosco ed aveva come amico un giovane grezzo cacciatore: nulla vieta di fantasticare che ella possa essere l’indipendente strega di qualche altra favola passata o futura. Insomma, come si suol dire: questa è un’altra storia. #cappuccettorosso #lupocattivo #favole #diventaredonna

  • La complicata arte di abitare lo sguardo

    Il dipinto di Diego Velàsquez intitolato Las Meninas formalmente ritrae la famiglia reale spagnola e alcuni personaggi della loro corte. Ma in un certo senso ritrae anche una cosa apparentemente banale e intangibile come l’atto di osservare. La prima particolarità sta nel fatto che il ritratto è per così dire scomposto. Una parte della famiglia, l’Infanta, è posta di fronte all’osservatore, al centro del quadro, ma l’altra parte, il re e la regina, è ritratta di rimbalzo ovvero la si può vedere solo riflessa in uno specchio in lontananza. La seconda particolarità è che nel ritratto è presente il pittore presumibilmente nell’atto di creare proprio Las Meninas. Gli occhi del pittore e lo sguardo del pittore non sembrano nello stesso posto. Anzi, come vedremo, guardare il pittore dentro il suo quadro (invece di doverci limitare a immaginarlo fuori da esso) sembra ulteriormente suggerire che la prospettiva da cui la scena è ritratta non è davvero quella del pittore ma forse di qualcun altro. La terza particolarità sta nel fatto che le persone ritratte avrebbero dovuto essere il pubblico più che i protagonisti della scena. Essi guardano il presunto soggetto del quadro, ovvero la coppia reale mentre posa, che però si vede solo specchiato in lontananza: per cui i comprimari finiscono con l’essere i protagonisti del ritratto, ritrattista compreso, e i reali diventano periferici, un riflesso lontano. Eppure quasi tutti i soggetti in primo piano fissano i reali seppure quasi essi non si vedano: allora quali sono i protagonisti del quadro? quelli al centro della scena o quelli fuori dalla scena? Ogni cosa sembra di nuovo ribaltata o sul punto di ribaltarsi. Tutti i soggetti ritratti, artista compreso, guardano la coppia reale e la coppia reale presumibilmente guarda tutti loro. Di più: così dipinta la scena sembra vista con lo sguardo della coppia reale. Ma lo sguardo dei reali è posto esattamente nel nostro medesimo punto di osservazione: noi siamo dove sulla scena starebbero il re e la regina. Potremmo dire che siamo nel punto dove loro posano o avevano posato: passato e presente sembrano pericolosamente diventare tangenti fino a quasi toccarsi. Tutti quei personaggi dunque stanno davvero fissando il re e la regina o forse stanno guardando proprio noi? Questo crea una specie di vertigine. Tutti i soggetti ritratti sembrano guardare noi ma questo noi non si capisce più se essere il noi per come lo conosciamo o se invece essere “noi” vuol dire essere per quell’istante il re o la regina. Si potrebbe finire col sentirsi addirittura sia l’una cosa che l’altra, sia noi che loro, sia presente che passato. E forse altro ancora: perché lo sguardo è sia il nostro, che quello dei reali, ma è anche quello del pittore: egli ha infatti reificato (in tutti i sensi) il suo sguardo negli occhi dei reali per potersi guardare nell’atto di creare, ma il suo sguardo è anche nei nostri occhi di osservatori; il nostro nel suo e nel loro; il loro nel nostro; eccetera. Io/Noi: la prima persona può essere cosa assai complicata. Questo dipinto sembra suggerire innumerevoli cose, più di quante possiamo qui elencare. Innanzitutto sembra suggerire che è impossibile osservare senza essere osservati, che osservatore e osservato non sono ruoli fissati per sempre, si è sempre sia l’uno che l’altro. Suggerisce inoltre che è impossibile osservare con neutralità ovvero senza influenzare la realtà osservata e senza esserne influenzati (cosa dimostrato anche dalla fisica, per primo Heisenberg). Non solo è difficile mantenere la distinzione tra soggetto e oggetto dell’osservazione ma anche tra protagonisti e comprimari. Nella stanza analitica ci sono due persone nella loro interezza e, pur nella diversità dei ruoli, parimenti coinvolti. Suggerisce che chi siamo non è sempre pacifico come vorremmo credere, che ci sono innumerevoli sguardi nei nostri occhi, che i nostri sguardi riflettono sia la nostra storia sia il presente di chi abbiamo di fronte, e addirittura riflettono i nostri sguardi riflessi nei loro in un complicato gioco di influenze reciproche e di reciproche inferenze. Chi siamo e chi crediamo di essere sono insomma rappresentazioni meno definite e definibili di quanto vorremmo. Con che occhi guardiamo? Quando ci guardano chi stanno guardando o chi credono di guardare gli altri? Paradossalmente quando consapevolmente indossiamo una maschera potremmo finire con l’avere più certezze di quando pensiamo di essere noi stessi: essere se stessi può essere più complicato che fingere di essere qualcuno. Ma indossare perennemente una maschera finirebbe col soffocarci. La soluzione forse è diventare consapevoli di quali sono gli sguardi che ci abitano per emanciparcene e dare davvero il proprio nome al nostro dire "io". #osservare #falsoSé #veroSé #arte #DiegoVélasquez

  • Quello che il corpo dice, quello che il corpo tace

    L’ombra delle sofferenze e dei disturbi psicologici non infrequentemente può ricadere sul corpo. Banalmente più o meno tutti conosciamo gli effetti sui nostri corpi di protratti periodi di stress. Per esempio espressioni come “farsi venire il mal di stomaco” sono quasi l’illustrazione didascalica di noi che non potendo per svariati motivi agire in maniera risolutiva sul problema, o non potendo scaricare fisicamente su altro le emozioni conseguenti che però strabordano, inconsapevolmente le infiliamo dentro lo stomaco. Che del resto è un contenitore, per cui facilmente se non contiene cibo finisce col contenere altro. Persino il vuoto dello stomaco a volte non è semplice mancato riempimento di cibo ma è qualcosa che paradossalmente ha una sua sostanza o, come il negativo di una foto, comunque una sua presenza: ma questo lo vedremo in seguito. Prestare attenzione al corpo ignorando la psiche o viceversa significa presuppone una dualità che nei fatti non esiste: svegliandoci non mandiamo a vivere il nostro corpo mentre la nostra mente rimane a dormire e neppure il contrario. Se non tutti i problemi e i sintomi fisici sono riconducibili alla mente è però vero che tutti hanno degli effetti psicologici. Un corpo pluritraumatizzato in un incidente non è la manifestazione somatica di qualcosa di psichico ma altera il modo di stare del mondo spesso sommando ulteriori difficoltà. In passato questa artificiosa dualità di una mente separata dal corpo ha portato a situazioni di ulteriore sofferenza: facilmente avere dei sintomi corporei senza una chiara origine organica suonava come un’ implicita accusa di esagerazione o di ricerca di attenzioni, al peggio di simulazione variamente declinata, al meglio si veniva lasciati orfani di una vera cura. Ci si sentiva dire che non c’era nessun motivo medico per stare male: eppure il dolore o il disagio che si provavano erano veramente sentiti e sentiti letteralmente nella carne. Il corpo è molte cose, non solo un mezzo per deambulare e agire nell’ambiente fisico ma anche il tramite per essere noi anzi, di più, è il nostro Sé corporeo. Non esprime solo noi stessi ma è parte di noi. Alcuni che hanno difficoltà a individuarsi per chi sono possono ripiegare agendo sul corpo, avendo più facilità a definirsi nel corpo perché hanno almeno un qualcosa di fisico su cui intervenire. Il rischio è di appiattirsi su una parte di ciò che siamo: in questi casi persino il corpo apparentemente idolatrato risulta svilito nel venire ridotto a un simulacro dell’essere se stessi. Alcuni pensano il corpo come lo specchio dell’anima, per altri è una sua maschera. Comunque sia il rapporto col proprio corpo difficilmente ci lascia indifferenti. Per questo una ferita al nostro corpo è una ferita a noi nella nostra interezza, corpo e psiche. Sul corpo si gioca parte della nostra identità. Battaglie vengono combattute su di esso: tra come lo percepiamo e come vorremmo percepirlo, tra come sentiamo che sia e come sentiamo dovrebbe essere e come i nostri genitori e poi la società ci dicono che dovrebbe essere, rispetto a come cerchiamo di renderlo in opposizione adeguamento o compromesso a tutto ciò. Il nostro corpo può farci sentire protetti o vulnerabili. Può essere sentito come un alleato o un traditore, può essere elevato a tutto o svilito come qualcosa di residuale di noi. Proprio perché il corpo è inseparabile dalla psiche, bisogna sapere prestare attenzione a come corpo e mente si esprimono. Un sintomo fisico può naturalmente essere l’effetto prodotto nel corpo di un disagio psicologico. Ma a volte è qualcosa di più. Può essere un segno di cosa ci fa soffrire, di cosa ci manca o di cosa ci è dato in eccesso senza rispetto per chi siamo. E per parafrasare un famoso adagio, guardare solo il dito invece che la luna che indica ci farebbe perdere l’essenziale. Altre volte i sintomi fisici sono un vero e proprio linguaggio di difficile interpretazione ma che parla di noi, o con noi, o al nostro posto. Il nostro corpo può ingrassare per mettere distanza tra noi e il mondo; oppure ingrassando può occupare lo spazio che sarebbe stato occupato da un altro che ci avesse abbracciati. Attraverso il controllo del corpo possiamo provare a controllare noi stessi o tentare di sottrarci al controllo di altri che non hanno rispettato il nostro essere persone in sé e indipendenti. Il nostro corpo può davvero diventare un confine da sorvegliare a difesa di se stessi. La pelle ci mette a contatto con il mondo in cui vogliamo vivere, ma può anche rivelarsi un mondo urticante. La pelle può essere sia barriera di contatto che barriera di separazione, confine d'incontro o di scontro. Manipolarla può significare tante cose: ad esempio se ci si sente persi ferirla può essere visto come un modo per tracciarsi e ricollocarsi all’interno di un qualche tipo di coordinate sensoriali. O viceversa il dolore può monopolizzare le nostre attenzioni ma può distrarci da una sofferenza più grande che non risiede nel corpo ma nella nostra vita. Diversamente quel dolore fisico è la muta denuncia di qualcosa che fa soffrire la nostra anima. Lo stomaco può essere riempito e svuotato, il suo livello di pienezza può essere regolato a differenza del senso di troppo pieno e di troppo vuoto a cui potremmo essere costretti da altri che prescindono i nostri bisogni e i nostri desideri. Possiamo essere fisicamente irriconoscibili a noi stessi perché sentiamo che in realtà gli altri non ci riconoscono per chi davvero siamo, o possiamo voler essere irriconoscibili affinché gli altri non ci riconoscano. E si potrebbe continuare a lungo. La medesima manifestazione corporea può significare le cose più svariate. Ognuna di esse ha una storia che non è riconducibile al nome dell’eventuale sintomo ma al nome dell’individuo e alla sua vita. Un sintomo corporeo può insomma parlare di noi perché per qualche motivo non possiamo permetterci di sapere consapevolmente talune cose. Oppure può parlare al nostro posto, perché noi neppure sappiamo cosa ci è successo o che ci è successo qualcosa, oppure potremmo non avere le parole per dirlo o non avevamo i pensieri per pensarlo, o addirittura non ne serbiamo il ricordo ma il nostro corpo sì. La manifestazione corporea di una sofferenza è la voce che ci è stata tolta, la nostra voce incarnata. Proprio perché mente e corpo sono inscindibili bisognerebbe prestare attenzione alle manifestazioni e ai sintomi corporei tenendo a mente questa interezza. E’ impossibile anche solo iniziare a curare un corpo sofferente se non ci prendiamo cura della persona a cui appartiene. #corpo #disturbisomatoformi #disturbipsicosomatici #disturbialimentari #autolesionismo #Sé

  • Appunti su tango e mare ovvero sul desiderio

    E’ impossibile non desiderare, così com’è impossibile non comunicare (Watzlavick, 1971). Qualcosa che fosse prossimo ad una mancanza di una di tali condizioni sarebbe sintomatico di un disturbo. Tutti hanno la sensazione di sapere cosa sia il desiderio, ma se ci chiediamo di darne una definizione spesso scopriamo che il suo significato rimane incastrato tra le nostre labbra, sulla punta della lingua qualcuno direbbe. Per cominciare a parlare di desiderio potrebbe allora essere utile partire da qualcosa che a un primo sguardo sembrerebbe essergli apparentato: il bisogno. Molti accostano nel significato i termini desiderio e bisogno. Forse non a caso però essi hanno etimologicamente origini diverse. “Bisogno” deriva dal latino bisonium col duplice significato di “cura” ma anche di “necessità”. L’etimologia di “desiderio” è più poetica, deriva dal latino de-sidus e può significare “fissare attentamente le stelle” oppure “togliere lo sguardo dalle stelle” nel senso di sentirne la mancanza. Le stelle esprimono un tipo di necessità che sembrerebbe non essere sul medesimo piano del bisogno. Le stelle sono difficilmente raggiungibili nella pratica ma al contempo sempre cercate e raggiunte con lo sguardo, tanto è vero che guidano la navigazione. Quando le stelle non sono visibili se ne percepisce la mancanza, e gli indovini diventavano incapaci di gettare uno sguardo sul futuro: marinai e indovini appunto le desiderano. Se il bisogno parla al presente, il desiderio immagina il futuro e muove verso di esso. Nell’appagamento di un bisogno il piacere che si prova ha a che fare con un ritorno ad un punto di equilibrio ottimale, ad un abbassamento dello stato di tensione (Freud, 1924; Jacobson, 1953, 1971). Pensate ad esempio al sollievo se non il piacere di mangiare dopo essere stati affamati. I bisogni, da quelli più basici a quelli più elaborati, sono legati agli oggetti del loro soddisfacimento da un legame strumentale: utilizzando ancora l’esempio del cibo, un pasto che abbia la funzione di placare la fame ha un significato ben diverso da una cena a lume di candela. Tutti abbiamo esperienza del fatto che talune persone sono funzionali ad alcuni nostri bisogni, ma se ci fosse qualcun altro al loro posto per noi sarebbe lo stesso perché sono le funzioni che rivestono a contare più che la specifica persona. Il bisogno ci parla molto più delle nostre necessità che dell’altro; il desiderio è evocato dalle specificità dell’altro ed in questo modo ci dice anche qualcosa di noi, insomma parla di entrambi. Più in generale: nel bisogno, il legame che ci lega all’altro è di natura anonima e strumentale, l’altro ci è utile per star bene e se ciò non accade allora viene eliminato dalla nostra equazione. Nel desiderio le cose si complicano: l’altro è riconosciuto nella sua specificità, non è un blocco monolitico e monocromatico, è una creatura policroma affascinante e articolata in molteplici sfaccettature. Il suo essere considerato in tutta la sua complessità ci crea insieme sofferenza e benessere, a volte entrambe le cose allo stesso momento. Anzi, nel desiderio l’assenza di tensione, a differenza che nel bisogno, può essere persino spiacevole, percepita o temuta come l’immobilità di qualcosa di morto o moribondo. Nel desiderio l'altro è che ci interessa per chi è prima che per quello che soddisfa. Nel desiderio, a differenza che nel bisogno, la tensione è piacevole perché è tensione verso qualcuno, è sua ricerca, è vigilia di un incontro. Il desiderio è tensione perché è proteso a qualcuno di riconosciuto nella sua importanza per sé ancora prima che per noi, eppure il desiderio ci fa anche sentire più direttamente, quasi sensualmente, noi stessi e chi noi siamo: nel desiderare ci sentiamo più vivi, abbiamo una spesso indefinibile ma diretta percezione di chi si è. Nel desiderio quindi non solo è impossibile che l’oggetto del nostro desiderio sia anonimo, ma noi stessi ci avviciniamo ancor di più a qualcosa di autentico di noi. Ecco una prima differenza dunque. Nel bisogno il piacere giunge da un ritorno verso la quiete dopo aver attraversato uno stato di tensione psicologica e/o fisica. Nel desiderio la tensione, con i suoi ritmi, le sue modulazioni, la sua danza, è fonte di benessere. Il tango è una rappresentazione plastica perfetta di questa dinamica del desiderio: con i suoi avvicinamenti e distanziamenti, lo sfiorarsi e quasi respingersi, il rallentare e accelerare, con la coppia di danzatori che si s/fidano, si superano, si aspettano, la battaglia degli arti inferiori contrapposta al legame che mai cede delle mani. Per tornare ad essere prosaico si pensi al vecchio adagio che l’attesa di una festa, il tendersi desiderante verso essa, è più piacevole che la festa stessa. Il bisogno è bisogno di qualcosa; il desiderio è in relazione a qualcosa anzi a qualcuno. Il desiderio è relazionale, il bisogno è solitario. Il desiderio, si diceva, è relazionale ovvero libera e insieme lega, comporta in un certo senso anche delle responsabilità (Hegel, 1807). Ecco un corollario a quanto detto, che è anche una seconda differenza: il bisogno necessita di certezze, di prevedibilità. Certezze e prevedibilità che invece finiscono con l’uccidere il desiderio: sarebbe come un tango ballato da fermi. Il desiderio, nel suo essere teso verso l’altro, e nel godimento di questa tensione, necessita che appena raggiunto l’altro faccia un passo più in là, che non sia esattamente o ancora identico a come lo pensavamo, e nel cercare costantemente una pienezza dell’altro, che pure si spera non possa essere mai del tutto raggiunta, noi stessi godiamo l’esperienza di ulteriori declinazioni di noi in rapporto con questo nuovo altro. L’essere oggetto noi stessi di desiderio ci arricchisce ulteriormente nel rispecchiamento dell’altro che ci rimanda un’immagine desiderata di noi che non sarà mai una copia carbone dell’immagine che abbiamo di noi stessi. Una coppia che funziona grazie invece che nonostante le diversità è una coppia che ha davvero raggiunto un maturo equilibrio: l’equilibrio sta nella capacità di danzare insieme, di mantenere e modulare all’unisono il ritmo ma di saper tollerare i contrappunti, come nel tango di fidarsi e sfidarsi, di cavalcare le onde ovvero le perturbazioni generate dall’altro che è una persona diversa da noi, dal non lasciarsene travolgere né offendere, dal godere del sentire l’essere accompagnare queste onde. L’equilibrio sta nell’aver acquisito una tale intimità e confidenza nei processi liberi di questa danza da non necessitare quindi di seguire tranquillizzanti copioni; l’equilibrio sta nel poter essere una coppia che governa la nave dell’essere insieme, invece d’illudersi di poter addomesticare le onde, una coppia che neppure ricerca l’illusoria pace data dall’immobilismo di un “calmare sempre le acque” che, come per tutte le secche, finirà inevitabilmente per affamare l’equipaggio. Non vorrei però essere frainteso. Quando parlo di desiderio non parlo solo di desiderio sessuale. Né parlo solo di coppia. Il desiderio riguarda noi stessi e il rapporto con gli altri, noi inclusi ovvero con parti di noi che, ad esempio, anelano una piena realizzazione e che nel viaggio per farlo ci fanno scoprire di poter essere altro ancora, rendendo la meta del nostro viaggio il viaggiare in sé. Essere in contatto con la nostra parte desiderante è una condizione fondamentale. Trovare un equilibrio tra questo desiderio di essere noi stessi e quello di rivestire il nostro ruolo nella coppia, nella nostra famiglia, nella nostra società, è un compito imprescindibile ma nient’affatto facile che può esitare in un sacrificio di sé, o viceversa in isolamento, o ancora in un adeguamento acritico ma sottilmente o apertamente rabbioso, e così via. Si diceva non è cosa scontata né mai facile, e quindi una famiglia di origine che abbia fatto sentire al bambino di poter esprimere questa parte desiderante può essere un grande aiuto. Viceversa potrebbe essere stata un ostacolo per il bambino quella famiglia che lo avesse fatto sentire come colpevole o egoista ogni volta che esprimeva il suo sé nascente e desiderante. Per desiderare bisogna essere persone vive e vitali, e non essere eccessivamente sofferenti. Chi soffre di gravissimi disturbi o delle conseguenze di gravi traumi ha ancora bisogni (seppure persino quelli possono apparire meno pressanti) ma non è scontato che abbia ancora desideri o che possa ancora accedere ad una loro parte desiderante talvolta eclissata dalla sofferenza. In situazioni particolari bisogni e desideri sembrano più confusi. Si pensi alla quarantena per il Covid-19 di cui stiamo facendo esperienza, in cui la differenza tra bisogno e desiderio sembra farsi meno netta dopo settimane di cattività nelle nostre case. Oppure, in tutt’altro ambito, pensate al disturbo narcisistico di personalità: a prima vista si potrebbe pensare che il paziente narcisista soffra di un desiderio inflazionato verso se stesso, un desiderio egocentrato in cui tutto orbita attorno a lui. In realtà il paziente con disturbo narcisistico di personalità non è colmo di desiderio, piuttosto è pieno di bisogno e timore, il suo desiderio è embrionale e insicuro, egli necessita di un’attenzione che puntelli un sé che è fantasticato grandioso solo per tollerare il panico di saperlo fragile e di non vederlo riconosciuto dall’altro. Il narcisista sembra mettere se stesso lì dove dimorerebbe il desiderio dell’altro perché l’altro è vissuto come pericoloso: in questo senso il suo desiderio è embrionale e insicuro. O, ancora, si pensi a chi pervicacemente ricerca una persona che invece non ricambia: si potrebbe pensare che si tratti di un desiderio grande, magari eccessivo, ma al più è la perversione di un desiderio. Il desiderio, si è più volte detto, è relazionale, ha a che fare, dicevamo come esempio, col tango, non può prescindere dall’altro, per sua natura non può essere imposto ma neppure può ridursi in un immobile stare abbracciati che non consente la danza. Il desiderio può essere in assenza dell’altro ma non in sua mancanza, anzi quasi presuppone un’assenza nel senso che dicevamo che se l’altro è raggiunto una volta per tutte il desiderio si spegne.

  • A proposito di cose virali: la paura ai tempi del coronavirus

    Circola in rete una favola creata da una maestra per spiegare ai propri allievi la situazione di emergenza sanitaria che sta attraversando il nostro Paese, s’intitola “Coronello, il virus birbantello”. L’idea della maestra risponde all’esigenza dei bambini di dare un significato alle proprie esperienze affinché non rimangono senza nome, senza forma, ombre mostruose sotto il letto. L’idea imperante un tempo di proteggere i bambini dalla verità con il silenzio, come un sole malato faceva sì che quelle ombre si allungassero oltre il tempo fisiologico che gli sarebbe spettato. I bambini non sono mai protetti dal silenzio: non c’è niente di più spaventoso di un terrore senza nome, di qualcosa che si percepisce ma che non può essere neppure nominato (ad Hogwarts avrebbero potuto fare un lavoro migliore per i loro studenti che non chiamare il cattivo “ColuiCheNonDeveEssereNominato”). Quello di cui hanno bisogno invece è verità seppur che tenga conto del loro essere bambini. Noi adulti, in questo non così diversi dai bambini, abbiamo allo stesso modo la necessità di definire la realtà che attraversiamo. Riuscire a dare una definizione a ciò che ci circonda e a ciò che ci accade ci dà la sensazione di poter sempre mantenere un certo margine di possibilità di gestione delle nostre vite. Eventi come una pandemia mettono però in scacco la nostra capacità di dare significato e di conseguenza la sensazione di aver un certo controllo sulle nostre esistenze. Il nemico in questo caso è invisibile, agisce inosservato, non lascia neppure presagire che delle difese andrebbero approntate (quali difese poi?). La reazione istintiva è la paura. Istintiva perché la natura l’ha iscritta nei nostri corpi come modalità immediata per affrontare un pericolo. Di fronte ad un pericolo la reazione di base per difenderci da esso è di attaccarlo o di fuggire. Ma come si aggredisce una minaccia invisibile e infinitesimale? Dove si fugge da una minaccia che potrebbe essere ovunque, che trasforma i gesti quotidiani in inconcepibili imboscate? La paura rischia così di perdere la sua funzione di protezione, fino a trasformarsi essa stessa in un ulteriore subdolo pericolo (pensate alla corsa delle persone che per fare scorte di cibo creavano assembramenti così aumentando il rischio di contagio). Come aiutare noi stessi? Non ad eliminare la paura, perché sarebbe insensato, e ci esporrebbe ad ulteriori rischi. Lasciarci senza paura o in balia della paura finisce con il sortire un effetto simile: ovvero di essere nudi di fronte al rischio. La paura va accompagnarla con la razionalità: un mantello da indossare sulle spalle e non sulla testa a renderci ciechi. Mitigare l’ansia significa riprendere il controllo di ciò che è ancora in nostro potere invece di focalizzarci su ciò che è completamente al di fuori del nostro controllo. Facciamo sì che la nostra razionalità guidi la preoccupazione verso il suo significato etimologico di occuparsi prima, occuparsi di un problema prima che ci travolga, attraverso cioè un comportamento proattivo allontanare la preoccupazione dalla sua connotazione di vuoto rimuginio su tutto ciò che non dipendendo da noi accrescerebbe la paura fino ad immobilizzarci o a metterci a rischio con comportamenti controproducenti. Subito dopo il primo compito necessario, cioè quello di informarci su ciò che ci minaccia, conoscerlo al meglio delle possibilità che ci sono date, il secondo compito è quindi mettere in essere tutto ciò che ci è possibile per proteggercene proprio in virtù di ciò che sappiamo del nostro nemico. Oltre a difenderci questo ha poi un ulteriore risvolto, psicologico, positivo: 1- il nemico è invisibile ma non misterioso nè incomprensibile; 2- non siamo in balia del fato, possiamo sentire di avere ancora una quota di controllo, certo non sull’imponderabilità degli eventi ma sicuramente sui noi stessi e sui nostri comportamenti volti a proteggerci. Il secondo punto ha ripercussioni anche sul primo: ad esempio possiamo scegliere fonti attendibili per informarci. Le notizie che circolano tramite social network hanno spesso lo scopo non d’informare ma invece di fare leva sulla parte più emotivamente primitiva e incontrollabile dell’essere umano: si spaccia un biglietto per un film horror come se fosse invece un biglietto per un documentario. Questa situazione d’incertezza e insicurezza può tra l’altro fare da cornice ad un pregresso disturbo ansioso acutizzandolo oppure far brillare una situazione di disagio per così dire latente. In alcuni casi, come appunto in certi disturbi psicologici, la razionalità fallisce comunque nel mitigare l’angoscia. A volte si crea addirittura un cortocircuito per cui il constatare che la razionalità non riesce ad attenuare l’ansia può generare ulteriori paure. I motivi possono essere molteplici. In alcuni casi, ad esempio, una paura non è tanto o non solo il frutto di un difetto di informazioni o di razionalità, ma è il segnale di qualcosa di fondamentale di noi stessi che è sentito in pericolo. Oppure l’ansia è il risultato di parti di noi in conflitto; o magari d’ incongruenze irrisolvibili ovvero di obiettivi per noi vitali ma che apparentemente si escludono a vicenda. Una minaccia percepita come fisica può coprire una minaccia psicologica. E così via. In questi casi l’ansia, per quanto talvolta persino invalidante, nonostante sia difficile da credere, non è il principale problema, ma ne è letteralmente il sintomo cioè la spia che ci segnala che qualcosa è sentito in pericolo e minacciato. In un disturbo come l’attacco di panico questa sensazione può assumere livelli parossistici, drammatici: è come se tutte le spie della nostra plancia mentale si illuminassero contemporaneamente, l’angoscia è totalizzante e in quel momento non ci dà alcun indizio su quale possa essere il problema o il rischio o la minaccia, perché quella minaccia, qualunque essa sia, ci ha già afferrati e ci sta schiacciando soffocando, uccidendo il nostro corpo o la nostra tenuta mentale (è questa la sensazione che chi ha sperimentato un attacco di panico frequentemente riferisce). In questi casi rivolgersi ad uno specialista è la prova che la nostra razionalità e la nostra capacità di controllo sul mondo, seppure momentaneamente detronizzati non sono ancora stati esiliati e possono essere il punto da cui ripartire.

  • Se la psicoterapia fosse una canzone

    Una canzone è, tra le altre cose, un’organizzazione non casuale di suoni e silenzi. L’esecuzione tecnica di una canzone è importante ma non esaurisce l’elenco delle cose indispensabili affinché una canzone funzioni ovvero ci coinvolga e in un certo senso ci faccia sentire che parla non solo a noi ma di noi. E’ esperienza comune come una canzone eseguita perfettamente ma per così dire “senza anima” risulti meno piacevole all’ascolto di una eseguita meno bene ma emozionata ed emozionante. D’altro canto il mondo interiore di un artista ha bisogno dell’albero di trasmissione di una buona tecnica affinché la propria emozione diventi emozione condivisa con chi ascolta: è la combinazione di quel mondo interiore e della capacità anche tecnica di esprimerlo che insieme compongono la sua arte. La psicoterapia, similmente ad una canzone, è fatta di un insieme di cose inscindibili tra loro se si vuole che funzioni. Come per la musica il corretto e buon utilizzo delle sue tecniche è indispensabile ma insufficiente: queste tecniche sono messe in opera da una persona unica che è lo psicoterapeuta in una relazione originale con una persona altrettanto unica che è il paziente. Nessuna tecnica che prescinda da questa semplice verità avrà durevole efficacia; ovvero non farà un lavoro utile fino in fondo un terapeuta che metta in atto gli stessi “copioni” terapeutici con tutte le persone prescindendo dal rapporto che con ognuno di essa dovrebbe essere irripetibile: non si crea una relazione con un sintomo ma con una persona, ed è la relazione che sostiene le tecniche terapeutiche. Nella psicoterapia come in una canzone c’è un testo, cioè ciò che viene detto a parole. Tramite le parole vengono chieste e date informazioni, condivise esperienze e ricordi, timori e speranze, emozioni, si narrano e in un certo qual modo si riscrivono storie di vita. Ma la lettura delle strofe prive di musica, anche delle canzoni con i testi più belli, significa perdere un intero livello di comunicazione di un mondo altrimenti indicibile a parole. In psicoterapia, come in una canzone, il senso più profondo o ulteriore delle parole, il modo in cui ci risuonano dentro, sta nelle sue componenti per così dire musicali: il suo tempo e i suoi ritmi, l’armonia dei suoni, gli unisoni e i contrappunti, soprattutto la sua melodia che dà una fisionomia riconoscibile a ciò che succede tra paziente e terapeuta. In una psicoterapia la melodia, che dà il vero senso alle parole condivise, è soprattutto assimilabile alla relazione che si instaura tra terapeuta e paziente. Con l’andare del tempo la relazione tra paziente e terapeuta mostra sempre più le caratteristiche di una relazione speciale che non ha corrispettivo con quelle della vita quotidiana. Succede che questa relazione cominci a funzionare su due piani diversi ma embricati. Nella relazione con il terapeuta spesso il paziente si comporta come nelle altre relazioni significative della sua vita: gli strumenti e la chiave musicale sono diversi ma la melodia è sempre riconoscibile. Ma la relazione tra terapeuta e paziente ha caratteristiche sue proprie, peculiari, ed inoltre è o dovrebbe essere improntata ad un maggiore consapevolezza. Il paziente si ritrova a stare in una relazione simile ad altre del suo passato e del suo presente ma al contempo è in una relazione assolutamente nuova e diversa da tutte le altre che ha conosciute. Questo continuo entrare e uscire da ognuno di questi piani per entrare nell’altro e viceversa, finisce per farci capire e sentire molte cose e a dare un ulteriore senso a quanto ci si dice. A volte terapeuta e paziente si ritroveranno a cantare all’unisono, altre volte il terapeuta unirà la propria voce per sostenere o sottolineare quella del paziente, altre volte ancora farà da contrappunto e sembrerà apparentemente cantare tutt’altra musica, ed altre volte davvero ci saranno delle serie perdite di sintonia o delle stonature che incrinano la canzone. Anche questi momenti però se riconosciuti e ricomposti saranno utili e insegneranno molto dando più pienezza alla musica una volta che la sintonia sarà riconquistata. E così via. Insomma si tratta di pochi minuti, ma in una canzone e in una seduta succedono davvero tantissime cose. L’obiettivo di tutto ciò non è solo di “aggiustare un sintomo” quasi fosse uno strumento rotto che rovina la sinfonia vitale del paziente. La meta finale è quella che il paziente diventi capace di suonare la sua melodia aggiungendo sempre più variazioni sul tema, liberandola da stereotipie, fino a rendendola ancora riconoscibile eppure ormai veramente nuova; capace ormai di improvvisazioni creative che gli faranno sentire di essere continuamente l’autore di una musica a cui sì appartiene ma che anche gli appartiene. E in tutto ciò il viaggio che crea e racconta la nostra musica, come si diceva altrove, è inscindibile dalla meta, perché è proprio durante il viaggio (di certo non sempre facile, ma diversamente la canzone risulterebbe sterile e ripetitiva) che si diventa più liberi di cantare la propria originalissima musica, quella che esprime chi siamo. #psicoterapiacomecanzone #percorsipsicologici

  • Se è tutto nella nostra testa

    Shawn Coss è un disegnatore ed illustratore dalle tinte cupe che ha provato a rappresentare il dolore del disturbo psichico. Prendendo a pretesto i suoi lavori vorrei proporre qualche breve riflessione sul timore, per chi soffre di un disagio o di un disturbo psicologico, di non essere capiti e sulla possibilità di comunque non rassegnarsi ad un’idea d’incomunicabilità ineluttabile della propria sofferenza. I disegni di Shawn Coss sono angosciosi e per lo più senza colori, l’inchiostro sembra distillato dalla stessa dolorosa sostanza del disagio che vuole rappresentare: quelli che disegna sono corpi senza dettagli salvo quei pochi che coagulano il senso specifico di quella sofferenza. Chi ha vissuto un disturbo psicologico conosce del resto molto bene la sensazione, nei momenti più duri, di sentirsi appiattito contro il proprio dolore che sembra come cancellare molta parte della complessità articolata della persona che si è. Immagino che Shawn Coss con i suoi disegni non voglia comunicare l’inesorabilità della prigione mentale della sofferenza psichica. Semmai i suoi disegni vogliono provare a far evadere la sofferenza proprio da quella sensazione d’incomunicabilità che le è caratteristica: quando si sta male facilmente ci si sente soli, convinti che gli altri non possano capire. Ed in effetti è difficile capire una sofferenza così intima come quella del disturbo psicologico, a meno che non ci si sia passati a propria volta. E’ questa incomunicabilità un grande dolore che si aggiunge al dolore. Una malattia organica è spesso più evidente nelle sue conseguenze, più facilmente permette anche vagamente di mettersi dei panni dell’altro, di suscitare l’empatia derivata dalla possibilità di più facilmente essere in grado pensare a come ci si potrebbe sentire al posto dell’altro che sta male. La malattia mentale invece è più intangibile e questo può facilmente far sentire a chi ne soffre che nessuno potrà capire la profonda solidità della sofferenza che provoca nonostante non ci sia una zona fisica da additare come sede di tanto dolore. Il disagio psichico inoltre, più frequentemente di quello fisico, sembra coinvolgere il cuore stesso del nostro essere persone, individui, da cui può scaturire a volte un sentimento d’imbarazzo, se non addirittura di vergogna, che fa sentire noi ancora più isolati e il nostro vissuto incomunicabile. Il corrispettivo di questa difficoltà risiede nelle persone che a volte non sanno come maneggiare una sofferenza che ha tanto a che fare con l’intimità essenziale di una persona cara, un tipo di sofferenza che facilmente mette in scacco una certa idea pragmatica di aiuto che difficilmente può applicarsi in modo diretto in questa sfera di disagio. Così, a volte, ci può trovare ad affrontare commenti che più che di sostegno sembrano di giudizio, quasi come se la sofferenza mentale fosse qualcosa di auto-inflitto o comunque un dolore di serie B, qualcosa “solo” nella nostra testa, una ridondanza di significato (a un cardiopatico non verrebbe da dire “E’ solo nel tuo cuore”) che vuole dire che quella è una sofferenza da cui potremmo uscire con uno sforzo di volontà. Se c’è un merito che i disegni di questo artista hanno è quindi quello di provare a comunicare quello che è difficilmente rappresentabile a parole. Hanno però l’apparente limite di offrire una sola faccia: ci fanno intuire ma sembra non sappiano comunicare un orizzonte di speranza. La speranza però difficilmente è scindibile dalla comunicabilità. Il dolore deve circolare, essere raccontato, sfiorato, a volte toccato e in qualche occasione può essere addirittura compreso o almeno intuito, trasmesso e riaccolto non più identico a prima: la speranza non può essere disgiunta da tutto ciò. Le scarnificate e dense illustrazioni di Shawn Coss sembrano impossibili da considerare un preludio di speranza eppure ci fanno quanto meno sospettare che potrebbero esserci modi di comunicare il proprio privatissimo dolore, e quindi forse addirittura modi per essere capiti e magari raggiunti. Disturbo post traumatico da stress Il trauma è una creatura mostruosa diventata inscindibile dalla persona traumatizzata, lo ghermisce e non lo lascia mai, ha come vita propria e s’insinua tentacolare nella sua esistenza con dolorosi flashback o incubi su quanto accaduto. La persona è parassitata dal trauma, prostrata e fiaccata dal suo peso, incatenata ad esso: il passato è onnipresente, è dietro e davanti, satura il presente che diventa residuale e spaventevole perché è incerto e per la sua potenzialità di riattivare ricordi su qualcosa che vorremmo ma non possiamo dimenticare: il presente non è presente, è quasi mera ombra del passato traumatico. Anoressia. Questa immagine mostra una ragazza scheletrica, la pelle del volto è un’ombra sul teschio, ogni peculiarità della persona levigata dalla malattia fino quasi ad essere cancellata o irriconoscibile. Il suo essere un unico irripetibile è affamato dall’ossessione per il peso e per le dimensioni del proprio corpo; ossessione raffigurata nel disegno con un metro che è un cappio che stringe la pancia e quindi lo stomaco della ragazza, la separa in due fino a farla somigliare ad una clessidra che scandisce il progressivo diventare terra della carne, lo scorrere e consumarsi dei chili, del corpo, del tempo e della vita stessa. Paradossalmente si consuma anche il suo essere chi è: paradossalmente perché essere ed essere amate per nient’altro che se stesse è invece tutto quello di cui lei ha bisogno: l’assenza di fame è fame di riconoscimento al di là di ogni cosa, anche del proprio corpo. Autismo. Un ragazzo dalla bocca cucita a rappresentare l’essere chiuso in se stesso, l’impossibilità di comunicare. Un’altra bocca è spalancata forse in un urlo ma rivolta verso il cielo e gli spazi siderali, non può essere ascoltata. Fobia sociale. Gli altri, vissuti come potenziale fonte di giudizio e umiliazione, sono rappresentati da mani che assediano, fumose e minacciose come spettri: forse sono mani benevolmente tese, ma s’impone il fantasma di ciò che si teme potrebbero infine dimostrarsi. Le proprie braccia, nel tentativo di evitare ogni contatto, sono quasi fuse col corpo: impossibilitate a toccare gli altri, inservibili a noi stessi, ci rendono prigionieri. Disturbo bipolare. L’ombra è una chiazza indistinta, colata per terra come bile e lacrime. L’ ombra è singolare, è una, ma inganna perché è proiettata quasi da due entità in alternanza (depressione e mania) che si danno le spalle ma sono inseparabili. Disturbo dipendente di personalità Depressione maggiore Disturbo borderline di personalità Disturbo ossessivo compulsivo Depressione post partum Ansia https://www.instagram.com/shawncoss/

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